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In fuga dalla Siria. Natale? La forza di ricominciare aspettando i corridoi umanitari

Luca Geronico, Inviato a Beirut lunedì 25 dicembre 2017

Sorriso di speranza. Un bimbo di Aleppo mentre gioca (Sebastian Rich/Unicef)

«Sono dei musulmani che si combattono in Siria. Non è una guerra che mi riguarda. Questo lo pensavo io come la gran parte di noi cristiani in Siria», ti spiega calmo Efrem, il nome è di fantasia perché «ho ancora molti parenti e amici nel mio Paese». Il traffico infernale della periferia di Beirut, avvolge come un serpente velenoso anche il piccolo ufficio di una della ong di Humanity, mentre le luminarie di Natale luccicano nel vicino quartiere cristiano.

Ti risponde calmo questo ingegnere civile di 29 anni che ora lavora come uomo delle pulizie e tuttofare in un grande negozio nel centro di Beirut. «Lavoro nero», come quello di tutti i profughi, con cui porta a casa i 550 dollari al mese che permettono a lui, alla madre e al padre di tirare avanti. La guerra civile, nonostante gli annunci del regime di Damasco e le dichiarazioni di Putin che lo scorso 11 dicembre ha visitato le sue truppe per ordinare di «iniziare il ritiro», per questa famiglia di siro-cattolici fuggita da el-Hamidiyeh, nel distretto di Homs, non sembra essere mai terminata. «Andavo all’università a Homs», prosegue sul filo del ricordo Efrem. Già negli ultimi mesi la convivenza era diventata difficile: «Se non sei per un partito, sei giudicato per forza un sostenitore di quello nemico. Ma io, come la gran parte di noi cristiani, non volevo prendere parte per nessuno. Quella non era la nostra guerra». Così quando il governo «ha invitato i giovani cristiani a entrare nell’esercito, abbiamo quasi tutti rifiutato di presentarci come volontari. Tutti tranne chi aveva già dei contatti con i militari».

Era il 2012 e l’aria è diventata irrespirabile per Efrem. «Un’auto carica di esplosivo è stata lanciata vicino alla nostra casa. Un chiaro segnale: ero diventato un nemico. Nessuno ha rivendicato quell’attentato ma nel nostro quartiere, in mano alle forze del governo, chi aveva delle armi poteva fare quello che voleva». Difficile restare tranquilli sotto la minaccia delle milizie governative, mentre «delle bombe lanciate dai quartieri ribelli di notte cadevano sui nostri tetti». Troppo pericoloso Un giorno, poi, un pullmino che riportava gli studenti cristiani a casa dall’università venne colpito: 4 giovani sono morti. «Capii che dovevo scappare a Beirut».
Anche Efrem, quest’anno, sarà alla Messa di mezzanotte di Natale nella chiesa di Sant’Antoine nel quartiere di el-Meten a Beirut.

Una festa con il cuore diviso per questa famiglia perché assieme a Myriam (pure questo nome di fantasia), la madre di 52 anni, e il padre sessantenne non sarà con loro il figlio minore. «Era rimasto da dei parenti ad Hamidiyeh per proseguire gli studi di diritto ed economia mentre noi a Beirut cercavamo una sistemazione accettabile. Come studente ha continuato a rimandare la chiamata per il servizio militare. Fino alla fine del 2014», spiega con un filo di voce Myriam. Per lei, come per il padre, nessun lavoro è possibile a Beirut, e il pensiero di un figlio lontano e, per ora irraggiungibile, scava una ruga più profonda sul viso già molto sciupato.

Impossibile per il secondo figlio restare in Siria per terminare gli studi quando, ormai esauriti tutti i termini per un rinvio, sui suoi documenti c’era il marchio di «disertore». Due o tre giorni soli per evitare l’arresto. La fuga, di nuovo, come scelta obbligata: quattro giorni a piedi fino in Libano.

Per non fare anche lui la vita da “sans papier”, dando probabilmente fondo agli ultimi risparmi di famiglia, il fratello di Efrem ha preso la via della Turchia. «Quando è arrivato a Istanbul, il 7 gennaio del 2015, ha appreso che proprio quel giorno non avrebbero più concesso i visti di espatrio per i siriani diretti in Europa», racconta con un lungo sospiro mamma Myriam. «Non ha avuto altra scelta: un barcone per andare in Grecia come clandestino. Il gommone, dato che c’era il mare grosso, è naufragato ma mio figlio, fortunatamente, è sopravvissuto». Ora è in Germania, dove grazie all’aiuto di una organizzazione umanitaria è riuscito a continuare i suoi studi.

Una notte di Natale con il cuore diviso tra il ricordo del passato in Siria e l’ansia per quel figlio solo in Germania. «La nascita di Gesù rappresenta la pace per tutta la gente. Vorrei che questo Natale mettesse la pace nel cuore della gente che si sta riunendo in famiglia», dice Myriam con le lacrime agli occhi.

«Per me – spiega Efrem – questo Natale vuole essere una nuova partenza per far vivere nel cuore la speranza di una vita migliore: saper dimenticare il passato e avere la forza di ricominciare». Grazie all’aiuto del consorzio “Humanity” Myriam, Efrem e il padre hanno presentato la domanda per essere accolti dai corridoi umanitari aperti dalla Comunità di Sant’Egidio. Nessuno osa dirlo, ma la speranza è di poter passare il prossimo Natale, tutti e quattro insieme, in Francia.