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L'esodo degli armeni. Nagorno. «Se non tornerò io, lo farà mio figlio»

Nello Scavo, inviato a Erevan giovedì 5 ottobre 2023

Una volontaria tiene in braccio una piccola rifugiata armena in un punto di assistenza organizzato a Erevan

Mosca accusa di tradimento l’Armenia per avere aderito alla Corte penale internazionale. Erevan accusa la Russia di tradimento per non avere protetto dagli azeri la popolazione armena del Nagorno-Karabakh. Mosca risponde che a tradire gli armeni è stata l’Unione Europea. «Benvenuto nel circolo dei Giuda», dice Sevan che con la famiglia è scappato dai monti del Nagorno per piantare una tenda in pianura, nella provincia di Ararat dove dal confine naturale del fiume Aras si possono guardare i nemici di sempre, in quella Turchia che non vuole riconoscere il genocidio, «ma che almeno non fa il doppio gioco».

Raccontata dagli sfollati, la guerra delle 24ore in “Artsakh” è di un altro tenore. C’è chi nei filmati dei saccheggi messi in rete dai soldati azeri ha riconosciuto la propria casa. E chi sull’uscio, prima di andarsene, ha appeso una scritta in inglese. Non un messaggio, ma una promessa. E anche una minaccia: «Questo posto è l’Armenia. Non costruirete mai la felicità sul nostro dolore, le nostre lacrime, il nostro sangue». Come è stato per il genocidio armeno, giunto fino a noi grazie alla consegna della memoria, così sarà per la cacciata dal Nagorno: «Se non tornerò, allora lo farà mio figlio, se non lui mio nipote. Artsakh, questo è il nome della mia vendetta».

Profughi del Nagorno-Karabakh in un centro di accoglienza nel villaggio di confine di Kornidzor, in Armenia - Reuters

A Erevan non giungono buone notizie. Ma pochi speravano in un avvio negoziale poco accidentato. Il primo round di colloqui sul Nagorno-Karabakh è saltato prima ancora di cominciare. Il presidente padrone dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha fatto sapere con un preavviso inferiore alle ventiquattr’ore di non voler partecipare al summit informale promosso dall'Unione Europea a Granada, in Spagna, nel quale oggi avrebbe potuto incontrare il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Aliyev avrebbe voluto che la Turchia, storico alleato di Baku, fosse rappresentata all'incontro, ma Francia e Germania si sarebbero opposte. Secondo anonime fonti azere citate dall’agenzia di stampa statale Apa, l’Azerbaigian ritiene che si sia sviluppata «un’atmosfera anti-azera», a causa di alcune dichiarazioni definite «pro-armene» da parte di del presidente del Consiglio Ue Charles Michel e della Francia, che due giorni fa ha inviato nella capitale armena la ministra degli Esteri Colonna, atterrata portando in dono la solidarietà di Parigi e la promessa di moderne armi per il male equipaggiato esercito armeno. Il timore è che Erevan possa diventare una preda, stretta com’è tra due colossi fra loro alleati: Turchia e Azerbaigian. L’Iran, che con Baku ha rapporti ambivalenti, invita alla calma. E questo basta, nel pieno della crisi Ucraina, a scongiurare scenari da guerra in tutto il Caucaso. A tal punto che le autorità dell’Azerbaigian hanno fatto sapere di non avere nulla in contrario al rientro degli armeni nel Nagorno.

Nessuno si fida, però. Specialmente dopo che una missione dei funzionari Onu in Azerbaigian si è recata in alcuni centro del Nagorno minimizzando le ricadute dell’operazione militare. «Dalle conversazioni che l’équipe ha potuto avere – si legge –, è difficile stabilire in questa fase se la popolazione locale intende tornare. Ciò che è chiaro è che è necessario costruire fiducia e sicurezza, e questo richiederà tempo e sforzi da parte di tutti».

Gli sfollati l’hanno presa malissimo. Come Maral, che ha trovato casa fuori Erevan, ma ha perso tutto. Il marito è in giro per i campi. Aveva un’officina meccanica con un paio di operai. C’è chi viene preso a giornata per stendere il cellophane sui campi e chiudere le serre, ora che il freddo scende di notte, e quella del mattino non è più brina ma un velo ghiacciato che scortica gli ortaggi. Sono loro la misura di tutte le guerre. Poveri o benestanti, operai e professionisti, signore con i monili di famiglia nascosti nella biancheria intima e madri che hanno salvato gli utensili da cucina ereditati dalle nonne. Profughi e sfollati anche qui si tramandano i ricordi di persecuzioni millenarie. E di tradimenti.

«Mosca non poteva accettare d’essere condannata all’irrilevanza», spiega un diplomatico europeo che ci risponde dall’Azerbaigian: «Messa alle strette dalla tenaglia di Erdogan e Aliev, ha scelto di stare nella partita». Non è nello stile di Putin negoziare da perdente. «Ha deciso di essere complice, facilitando il lavoro degli azeri, e non ostacolando i piani di Erdogan che ora è in debito con Mosca», aggiunge mentre sottolinea il messaggio che dal Caucaso meridionale viene diramato alle leadership di tutte le repubbliche ex sovietiche: «Desiderare di emanciparsi da Mosca è fonte di guai».

La relazione degli osservatori Onu passa su tutti i telefoni della diaspora. Non credono a quello che leggono. Perciò non si fidano. Partendo da Aghdam, la missione ha visitato la città di Khankendi, dove ha incontrato la popolazione e gli interlocutori locali e ha potuto constatare di persona la situazione delle strutture sanitarie e scolastiche. «Il team non ha riscontrato danni alle infrastrutture pubbliche civili, compresi ospedali, scuole e abitazioni, né alle strutture culturali e religiose. La missione – si legge ancora – ha constatato che il governo della Repubblica dell’Azerbaigian si stava preparando per la ripresa dei servizi sanitari».

Intanto, nella capitale armena arrivano gli ultimi giornalisti scappati dall’Artsakh. Mostrano le ultime immagini registrate prima dell’attraversamento del corridoio di Lanchin, cinque chilometri per entrare in territorio armeno dopo i controlli dei soldati azeri, che cercano ex militanti dei separatisti armati dell’Artsakh. Nel video si vedono i blindati dell’esercito azero ce agganciano diverse funi una delle grandi croci bianche poste sulle sommità dei monti. In pochi secondi il simbolo della minoranza cristiana di nuovo scacciata precipita al suolo, mentre intorno si spara in aria con i Khalasnikov e si grida «Allah Akbar».


Una pattuglia azera accanto a un veicolo dei peacekeepers russi a un posto di blocco lungo la strada che porta alla città di Stepanakert, nella regione del Nagorno-Karabakh, riconquistata la settimana scorsa da Baku - Ansa