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La resistenza. Un anno dopo il golpe dei generali in Myanmar comanda solo il caos

Stefano Vecchia sabato 29 gennaio 2022

Protesta a Yangon dopo il colpo di stato

Nelle prime ore del mattino del primo febbraio 2021 il Myanmar tornava nell’incubo della dittatura militare. Messa agli arresti l’intera leadership civile, imposti legge d’emergenza e censura, il generale Min Aung Hlaing comunicava la formazione di una giunta militare e la necessità di porre sotto il suo controllo un Paese a suo dire messo in crisi dai brogli nelle elezioni che meno di tre mesi prima avevano confermato il ruolo di governo della Lega nazionale per la democrazia guidata da Aung San Suu Kyi e la volontà popolare di consolidare la giovane democrazia birmana. Immediate le reazioni, con una condanna quasi unanime del golpe all’interno e all’estero e con imponenti proteste. Manifestazioni, come le prime iniziative di boicottaggio e disobbedienza civile che si estenderanno successivamente a settori cruciali dello Stato, controllate da polizia armata e militari con cariche e azioni intimidatorie, ma al 9 febbraio con una risposta violenta che provoca i primi morti. Inizia una escalation di violenza.

I ragazzi in piazza a Mandalay qualche giorno dopo il colpo di stato - Ansa

A marzo Amnesty International denuncia l’uso di armi da guerra nelle strade contro i manifestanti pacifici. Immediata da parte Onu l’accusa di «crimini contro l’umanità», ma nei mesi successivi apparirà chiaro come la tutela cinese e russa sulla giunta impedirà ogni risoluzione di condanna e l’individuazione di azioni punitive multilaterali. Nella giornata dedicata alle Forze armate, il 27 marzo, si registrano oltre 100 vittime della repressione e questa data segna un cambio di strategia delle opposizioni che dalle piazze si trasferiscono nelle aree rurali dove vanno formandosi centinaia di Forze di difesa popolare e nelle regioni abitate da etnie minoritarie le cui milizie si sono attivate a tutela della popolazione civile. Si avvia così una unità di intenti e una graduale cooperazione sul piano operativo tra varie forze che negano legittimità al regime e a cui la nascita, ad aprile, del governo di unità nazionale, esecutivo-ombra formato da esponenti della Lega nazionale per la democrazia sfuggiti alle retate e all’incarcerazione, darà un ulteriore slancio, restituendo alla popolazione un riferimento politico e alla comunità internazionale un interlocutore per quanto debole. Agli arresti nella capitale Naypyidaw, senza la possibilità di contatti con l’esterno, nemmeno quelli richiesti da più parti internazionali, è da un anno anche Aung San Suu Kyi, guida della lotta nonviolenta contro la dittatura dal 1988 e, successivamente alle elezioni del 2015, ministro degli Esteri e Consigliere nazionale. L’intento persecutorio viene chiarito dai procedimenti penali avviati nei suoi confronti. Due già arrivati a una sentenza: il 6 dicembre 2021 e il 10 gennaio scorso per complessivi otto anni di reclusione.

Scritta comparsa a Yangon il 20 febbraio 2021 - Ansa

Pene miti, tutto sommato, anche se sul capo della Premio Nobel per la Pace pendono accuse ben più gravi di tradimento e cospirazione che prevedono decenni di carcere. Condanne che sembrano uno strumento di intimidazione affinché Suu Kyi apra la porta al compromesso con la giunta e forse a una condivisione del potere che lasci ai militari privilegi e intoccabilità in cambio di una libertà sotto tutela e - forse - di quella carica presidenziale che finora la Costituzione del 2008 scritta dai generali non le ha concesso. L’icona della democrazia birmana resta per il regime un’interlocutrice necessaria, sia verso la società birmana nel suo complesso, sia verso la comunità internazionale che pure dal 2017 l’ha attaccata per la sua apparente indifferenza verso il genocidio dei Rohingya. Oggi, una realtà che aveva ritrovato dinamismo e libertà di espressione, rischia di tornare indietro di decenni. Sul piano dei diritti, sicuramente, ma anche su quello del benessere.

Commemorazione delle vittime a Naypyidaw - Ansa

Lo scorso luglio un rapporto della Banca mondiale ha indicato una contrazione del 18 per cento dell’economia nel 2021, con una povertà già raddoppiata rispetto al 2019 e il rischio che entro quest’anno almeno il 30 per cento dei birmani torni sotto la soglia di povertà. Si avvicina il sessantesimo anniversario del golpe che il 2 marzo 1962 portò al potere i generali guidati da Ne Win e che inaugurò mezzo secolo di dittatura feroce. Quello che fino a 12 mesi fa avrebbe potuto essere un promemoria doloroso ma necessario su un tempo che credevano passato, sarà per i birmani vissuto in una condizioni simili se non peggiori. Quello di oggi è un Paese in aperta ribellione, avviato alla guerra civile e a violenze più diffuse che in passato. Se è opinione diffusa che i vertici militari abbiano sbagliato i loro calcoli puntando a una rapida accoglienza del loro controllo, gli oppositori potrebbero pagare un caro prezzo. Come è stato per almeno 1.300 uccisi dalla repressione, le migliaia di feriti e quanti sono finiti sotto tortura, mutilati o bruciati vivi nelle loro case durante le operazioni militari. Com’è per i 400mila sfollati che cercano rifugio nelle foreste o vanno accalcandosi al confine thailandese. Tra essi, denuncia Save the Children, 140mila bambini, che «vivono all’aperto, nella giungla, in rifugi improvvisati, esposti a fame, rischi e malattie».