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Golpe. Myanmar, si sveglia la protesta: pentole e palloncini rossi contro i generali

Stefano Vecchia venerdì 5 febbraio 2021

La protesta delle pentole a Yangon

C'è voluto tempo – mezzo secolo di dittatura feroce e dieci anni di democrazia sotto tutela – per convincere i birmani che il muro contro muro non paga, ma nemmeno paga dare credito alla ragionevolezza di chi la democrazia bilancia sulla punta dei fucili e di conti bancari offshore.


Confermati la detenzione domiciliare per Aung San Suu Kyi nella capitale Naypyidaw, e il trasferimento in una località ignota del capo dello Stato, Win Myint, e della sua famiglia dal palazzo presidenziale dove erano segregati da lunedì, oggi a essere privato della libertà è stato il 79enne Win Htein, leader della Lega nazionale per la democrazia, fedelissimo della premio Nobel, Aung San Suu Kyi e per molti anni incarcerato sotto il regime militare. Il suo crimine? Avere osato dichiarare che il golpe militare non è stata «una mossa saggia».

Una manifestazione in supporto di Aung San Suu Kyi a Nuova Delhi - Ansa

Privati dei principali riferimenti istituzionali, migrati da Facebook, bloccato d’imperio, a Twitter, anch’esso poi chiuso, i birmani hanno avviato una strategia che prende esempio dal “farsi acqua” delle proteste di Hong Kong (non esporre il fianco alla repressione sfuggendo ogni contatto con le forze di sicurezza) e dall’impegno non-violento che ha caratterizzato la lotta per la libertà dal 1990 indirizzata da Aung San Suu Kyi.

Palloncini rossi in segno di protesta per le strade di Yangon - Reuters

In queste sere, alle 8, i balconi e i terrazzi hanno iniziato a popolarsi di ombre e di pentole, coperchi, plastiche sbattuti per ricordare ai generali che il passato è stato subìto ma non dimenticato, che una replica non sarà tollerata e che il mondo è all’unisono dalla loro parte, salvo Cina e Corea del Nord che alla democrazia preferiscono copioni in bianco. Per la scaramanzia e la numerologia birmane di cui i capi militari hanno da sempre fatto ampio uso per orientare nel modo più rispettoso della tradizione le retate di oppositori, la costruzione di bunker e rifugi e persino la pianificazione della capitale Naypyitaw, il frastuono associato al numero 8 favorisce la cacciata degli spiriti malvagi.

Donne con vestiti rossi in una veglia di protesta a Yangon - Reuters

Paese che vai, resistenza che trovi ma con l’uguale obiettivo di rendere la vita difficile alla dittatura – politica o economica – come visto (e sentito) nei cacerolazos in Argentina, Cile e Venezuela o i canti e slogan dai tetti di Teherann che aggiravano la proibizione (e i rischi) delle manifestazioni di piazza. Espressione di dissenso che si associa alla resistenza passiva di medici, infermieri e dipendenti pubblici che da martedì si presentano al lavoro mostrando la spilla con il nastro rosso della Lega nazionale per la democrazia, seguiti oggi dagli insegnanti.

Studenti e insegnanti manifestano facendo il segno con le tre dita alzate - Ansa

Il dramma birmano è nato nel 1962, macchiato dal sangue nelle università nel 1988, segnato dalla negazione del risultato elettorale democratico del 1990 e tornato ora al copione in mimetica dopo qualche incertezza democratica dell’ultimo decennio. Con i protagonisti che, toltisi nel 2011 le odiate divise per infilarsi in abiti civili di buon taglio e in agiate pensioni arrotondate con incarichi parlamentari e di governo, sono ora tornati in prima linea per impedire che la volontà popolare che li ha nuovamente bocciati con il voto dell’8 novembre 2020 li privi definitivamente di ruoli istituzionali e li riconduca nelle sedi e nelle funzioni delle forze armate.