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L'analisi. Dal muro al Paese sicuro: la strategia di Trump verso il voto del 2020

Lucia Capuzzi giovedì 18 luglio 2019

C’era una volta «il muro», un’invalicabile barriera lunga 3.200 chilometri che avrebbe blindato l’intera frontiera meridionale Usa, da Tijuana al Golfo del Messico, incurante dei canyon e deserti incontrati lungo il cammino. Il veto dei democratici, sommato alle difficoltà logistiche, ha infranto il “grande sogno” con cui Donald Trump aveva conquistato il proprio elettorato tre anni fa. Una delusione “pericolosa” per il presidente in vista del 2020. Invece di rinunciare al muro, dunque, quest’ultimo ha deciso di trasformarlo. Da fisica, la recinzione s’è fatta legale.

Per costruirla, Trump ha deciso di “inve- stire” il proprio capitale politico sul “Paese terzo sicuro”. Termine quest’ultimo meno immediato di “muro” ma abilmente associato dal leader repubblicano all’idea di tenere i nuovi arrivati “del otro lado”, (dall’altra parte), del confine e del Continente. Il “Paese terzo sicuro” – cioè l’individuazione di luoghi esterni agli Usa dove tenere i richiedenti asilo in attesa dell’esito della domanda – è l’attuale imperativo trumpiano. I candidati prescelti sono stati Messico e Guatemala, a dispetto della loro media di 93 e 60 omicidi al giorno. Entrambi hanno cercato di svicolare. Il primo prendendo tempo e accettando di accogliere gli aspiranti rifugiati in forma provvisoria per evitare la scure dei dazi sulle esportazioni. Il presidente del secondo, Jimmy Morales – ormai alla fine di un mandato segnato da accuse e sospetti – era intenzionato ad accettarlo, allettato dalla possibilità di aiuti. È stato, però, bloccato all’ultimo minuto dalla Corte Costituzionale mentre già si accingeva a volare a Washington per firmare il controverso accordo.

Lo stop è arrivato domenica a causa una forte mobilitazione della società civile che ha visto i vescovi guatemaltechi in prima linea. Trump, però, non si è perso d’animo. Chiuse le strade negoziali con i due vicini, poche ore dopo, il presidente Usa è ricorso alle vie di fatto. Da martedì, con un ordine esecutivo, è proibito chiedere asilo per chi entra negli Usa passando da un Paese terzo. Ovvero la gran maggioranza dei centroamericani che, in fuga dalla violenza record delle rispettive nazioni, sono costretti ad attraversare almeno il Guatemala e il Messico prima di raggiungere il suolo statunitense, in bus o sul treno merci «La Bestia».

L’aereo è fuori questione data l’impossibilità di ottenere il visto. In base alla nuova normativa – contro cui l’American civil liberties union ha già presentato ricorso –, i centroamericani devono chiedere lo status di rifugiati nei Paesi di transito, riconosciuti implicitamente sicuri. Una sorta – con tutti i dovuti distinguo del caso – di Regolamento di Dublino all’americana. La “mossa” consente di alleggerire la pressione sui centri di detenzione Usa, affollati di famiglie con bambini, i nuovi protagonisti dell’esodo centroamericano. Proprio la scelta di rinchiudere anche chi arriva con minori – in genere lasciato a piede libero fino al processo – ha portato al semi-collasso le strutture. Per far fronte all’emergenza, Trump ha deciso di “esternalizzare”. In Messico, sono già 31mila le richieste di asilo da gennaio, già più di quelle presentate nell’intero 2018. Il Guatemala – dilaniato da violenza, corruzione e povertà – nel mentre, resta terra d’espatrio. Difficile prevedere come potrà farsi carico dei profughi o quantomeno smettere di trasformare in profughi i propri cittadini.