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MULTINAZIONALI. Così si prova a rendere etico il settore agroalimentare

Nello Scavo mercoledì 18 aprile 2012
​La ragazza che si aggira tra i quattrocento braccianti impugna un machete dalla lama scintillante. Ha 28 anni e una laurea in agronomia. Cappello da cowboy e unghie accuratamente laccate. «Qui comanda Diana», avverte Antonio Ortega, l’operaio sudaticcio arrampicato in cima a un banano. Prima che verde la rivoluzione del Costa Rica è rosa.La piantagione si estende a perdita d’occhio. Diana Segura appena uscita dall’università di San José è stata incaricata di dirigere una delle più vaste "fincas" di proprietà degli americani di Chiquita: «Quello che si sta realizzando – spiega l’italiano Damiano Borgonovo, che nel Paese centroamericano rappresenta l’agenzia Onu per lo sviluppo – è un modello che tenga conto dell’impatto sociale, ambientale ed economico delle fincas».Anche Antonio fa volteggiare un machete: «Serve a potare le piante», rassicura. Non c’è mai da fidarsi troppo delle multinazionali. «Però – osserva Borgonovo – nel caso di Chiquita possiamo dire che la grande compagnia si adatta più rapidamente ed efficacemente agli standard che noi richiediamo, di quanto non facciano i piccoli produttori». Dal salario alle condizioni di lavoro, «è più facile controllare cosa stiano combinando "los americanos" – spiega un esponente del sindacato Solidarismo –, perché dopo gli scandali degli anni scorsi la compagnia ha tutto l’interesse a far sapere che la storia è cambiata e che il consumatore, in Europa come negli Usa, non deve più sentirsi complice dello sfruttamento e degli abusi contestati in passato».Dietro al familiare "bollino blu" si celavano gli oscuri intrighi delle Banana Repubblic centroamericane, e le mani sporche di sangue dei gruppi paramiliatari colombiani. Chiquita, la multinazionale statunitense di Cincinnati, tra i maggiori produttori al mondo di frutta tropicale, nel 2007 ha dovuto pagare alla giustizia americana una multa da 25 milioni di dollari, dopo aver ammesso che fra il 1997 e il 2004 la sua filiale colombiana Banadex aveva versato 1,7 milioni di dollari ai capi delle Auc, la fazione paramilitare di destra che si contrappone ai guerriglieri comunisti delle Farc. «Siamo stati costretti – hanno sostenuto in tribunale i manager della holding – per proteggere la vita dei nostri dipendenti in anni in cui assassinii e sequestri erano molto frequenti». La battaglia legale va avanti. I familiari di 393 vittime dei paramilitari, la maggior parte agricoltori, hanno chiesto 20 milioni di dollari di indennizzo per ogni morto ammazzato. In totale fanno 7,9 miliardi di dollari (5,4 miliardi di euro). Secondo Jonathan Reiter, avvocato di parte civile, Chiquita «era coinvolta in una cospirazione con le Auc per controllare la produzione e la distribuzione di banane in Colombia». Al contrario, la multinazionale ribadisce di aver subito un’estorsione. Di aver dovuto cedere per salvare i propri dipendenti dalle ritorsioni.Fiaccato dalle inchieste giornalistiche che ne avevano compromesso l’immagine, il colosso dell’Ohio ha accusato il colpo. È così che sono state cedute le attività in Colombia, dove ora la compagnia acquista i prodotti agricoli da produttori locali che si assumono ogni rischio. Intanto, però, la politica aziendale è stata trasformata.Non è solo la polo gialla a rendere riconoscibili i costaricani alle dipendenze di Chiquita. Lo status symbol è la villetta prefabbricata. La paga, che per i dipendenti del marchio americano supera mediamente del 20% il minimo salariale, consente di vivere in comode casette squadrate. Circondate dal verde, oltre all’elettricità, all’acqua corrente e all’antenna parabolica, non possono mancare un paio di poltrone a dondolo all’ombra di felci giganti. Lo stipendio base stabilito dal governo di San José è di 410 dollari mensili, Chiquita ne paga dai 628 (475 euro) per i braccianti ai 1.500 euro dei dirigenti locali. A cui vanno aggiunti benefit molto apprezzati, come il sussidio aziendale per le spese scolastiche dei figli e l’assicurazione sanitaria per la famiglia. «Certo che potrebbero pagarci di più – sillaba sottovoce un addetto ai container nel gigantesco scalo navale di Puerto Limon, da dove salpano i bastimenti per l’Europa –, ma in fondo noi siamo i meglio pagati del Paese».A dare manforte alle istanze sindacali è arrivata "Rainforest Alliance", un’organizzazione internazionale indipendente che certifica, secondo parametri poco elastici, il rispetto dei diritti dei lavoratori, la tutela della biodiversità, l’utilizzo esclusivo di pesticidi "tollerabili", vietando l’uso del velenoso Paraquat, che non di di rado provocava insufficienza respiratoria acuta. Lucy Cordero e Yessenia Soto guidano lo staff di certificatori di Rainforest. «Siamo sulla buona strada – spiegano –, al momento nessuno riesce a fare di meglio. La totalità delle fincas apparenenti alla compagnia ha ottenuto la certificazione. Sta diminuendo l’erosione del terreno, migliora lo stato dei fiumi, migliora la qualità della vita dei braccianti e diminuiscono gli infortuni».Nella piantagione la vita non è una passeggiata. Dopo la raccolta, che necessita anche di abilità acrobatiche, i "treni" di banane vengono trascinati a mano nel centro di confezionamento grazie a teleferiche che per chilometri attraversano i campi. Diana Segura percorre con la disinvoltura di una modella a un defilée i traballanti ponti sospesi. Le basta sorridere a denti stretti perché gli operai si rimettano in riga. Con il gran caldo non tutti accettano volentieri di indossare le mascherine anti-pesticidi. E nemmeno le scomode protezioni in kevlar che proteggono le gambe dai colpi accidentali di machete. «I nostri padri – brontola uno di loro – non avrebbero mai messo questa roba».C’è dell’atavico machismo latino nei mugugni di chi, anche in casa, vorrebbe fare alla vecchia maniera. Carmen Brenes ha deciso di non starci più. Merito anche della scintilla innescata quando, nel febbraio 2010, Laura Chinchilla è diventata il primo presidente donna del Costa Rica. È così che Carmen ha fatto parcheggiare nel giardinetto un ingombrante container, trasformato in laboratorio per la produzione di snack a base di ananas e banane messe ad essiccare. La multinazionale dal bollino blu ha deciso di sostenere il progetto, mentre Carmen riuniva con sé un’altra dozzina di donne di Sarapiqui, tra la foresta pluviale e la polverosa carretera che scende verso il Mar dei Caraibi. «Ora siamo imprenditrici – sorride – ed esportiamo anche in Europa». I mariti? «Si sono rassegnati: loro braccianti, noi manager. E con quello che guadagniamo assicuriamo una buona vita anche a loro».