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Reportage. Nelle baracche del Mozambico, dove il clima si accanisce sui poveri

Paolo M. Alfieri, inviato a Beira (Mozambico) mercoledì 15 dicembre 2021

Isabel Aleixo, insieme a uno dei quattro figli, davanti alla sua casupola a Macurungo

«Mi chiamo Isabel Aleixo, ho 39 anni e sono vedova. Non ho idea di dove sia Glasgow né sapevo che lì il mondo ha parlato di clima e forse anche di noi. Quello che so è che quasi tre anni fa un ciclone ha distrutto la mia casa. E che ancora oggi io e i miei quattro figli non abbiamo un tetto sotto cui dormire». Bisogna destreggiarsi tra le stradine dissestate del bairro di Macurungo, periferia di Beira, seconda città del Mozambico, per vedere gli effetti e i disastri di tutto quello che va sotto il nome di cambiamento climatico.

Cinquecentomila abitanti distribuiti su un territorio in gran parte sotto il livello del mare, nel marzo 2019 Beira è stata la città più colpita dalla furia del ciclone Idai, che travolse anche Malawi e Zimbabwe. Oltre 1.000 furono le vittime, 1,5 milioni in totale gli sfollati. Catastrofi del genere, spiegano gli esperti, una volta si verificavano ogni 10-15 anni, ma il riscaldamento globale ne ha intensificato sia l’intensità che la frequenza. Nel solo Mozambico al ciclone Idai sono seguiti altri quattro cicloni importanti. L’ultimo, Eloise, lo scorso gennaio. In questi anni la comunità locale si è rimboccata le maniche, mentre da tutto il mondo qui affluivano centinaia di milioni di dollari. Ma le conseguenze dei disastri, per gli ultimi, sono ancora tutte lì. «Basti pensare alle scuole – sottolinea l’arcivescovo di Beira Claudio Dalla Zuanna, argentino di nascita ma di famiglia italiana –. Tra quelle statali non ce n’è una a cui sia stato riparato il tetto». C’è chi dice che Beira abbia pagato l’essere uno storico feudo della Renamo, il partito conservatore che per 17 anni, fino al 1992, si è scontrato con la formazione socialista del Frelimo, rimasto ininterrottamente al potere dall’indipendenza a oggi. O, forse, la ricostruzione mancata è solo frutto di corruzione e inefficienze diffuse.

Sanaia Combo davanti alla sua casupola: vi abitano in sette, senza nemmeno una lamiera a far da soffitto - Alfieri


«Quella notte è arrivato un vento fortissimo, poi la pioggia e non ha smesso più – ricorda Isabel –. Mi sono ritrovata l’acqua alla vita, mi sono fasciata il mio bimbo più piccolo dietro la schiena e insieme agli altri tre figli sono andata a dormire dalla mia vicina, che aveva avuto un po’ meno danni. Sul momento pensavo che solo la mia casa fosse stata distrutta, ma il giorno dopo ho visto che nel quartiere non c’era più nulla: era tutto sott’acqua». A riguardare le immagini di quei giorni si stenta a riconoscere le strade o i quartieri. Ma tuttora la stragrande maggioranza delle casupole del bairro ri-tirate su a fatica – come quella di Isabel, in cui lei ci invita attorniata dai suoi figli – ha solo un pezzo di lamiera arrugginita che possa ripararne gli abitanti.

È così anche la sua, mezza diroccata e con pietre ovunque. Si fatica a pensare che qui possa viverci qualcuno, che qui possano viverci in cinque. Tutto intorno le strade restano un percorso a ostacoli tra buche piene d’acqua in cui giocano bambini seminudi, ai lati delle quali, sulle bancarelle, c’è chi vende i pochi prodotti coltivati nella zona, spesso solo pomodori e cipolle. «Dopo il ciclone sono andata in depressione – ammette oggi Isabel –. Pensavo che sarei morta, ma avevo dei bambini, non potevo permettermelo. Ho cominciato a poco a poco a ricostruire qualcosa, comprando la sabbia, il cemento. Questa casupola è tutto quello che ho, e spero che niente me la porti via di nuovo». Poco lontano abita un’amica di Isabel. Si chiama Sanaia Combo e in casa sua abitano in sette. Qui non c’è nemmeno una lamiera a far da soffitto. I panni sono stesi ad asciugare a cavallo delle pareti diroccate mentre anche la porta d’ingresso, una tavolona di legno, è tutta malandata.

Bambini giocano nel bairro di Macurungo, a Beira - Alfieri

La “resilienza”, la capacità dell’essere umano di superare un evento traumatico, rischia di essere un termine buono solo per i manuali di psicologia, se poi lo sconforto ha il sopravvento. Qui alla periferia di Beira donne come Isabel, che per i primi giorni dopo le inondazioni avevano potuto contare solo su se stesse, hanno presto compreso che soltanto unite potevano salvarsi. È proprio questo – “salvarci l’un l’altro” – il significato di Kuplumussana, il nome dell’associazione che oggi comprende una sessantina di donne e una decina di uomini del bairro di Macurungo. Nata già nel 2005 per combattere l’Hiv e il suo stigma da un gruppo di donne sieropositive, fortemente sostenute dall’Ong italiana Medici con l’Africa Cuamm, Kuplumussana si è rivelata uno strumento importante anche dopo le inondazioni.

«Abbiamo svolto un lavoro che spesso non si vede, ma che dà speranza a migliaia di persone», spiega Francisca, tra le anziane del gruppo. Tutto l’impegno per sensibilizzare la comunità sull’importanza dei test sull‘Hiv, della prevenzione e dell’aderenza alle terapie con gli antiretrovirali – un impegno che ha fatto nascere altre due associazioni composte solo da giovani formati come attivisti comunitari dal Cuamm e che ha compreso anche la lotta alla malnutrizione e strumenti come il teatro di strada – si è rivelato infatti prezioso anche nell’emergenza seguita alle inondazioni e nel periodo successivo, quando si è aggiunta la pandemia da Covid-19.

«Ai primi incontri con lo psicologo tutti piangevano, è stato un modo per condividere la tragedia della distruzione provocata dal ciclone – racconta Natalia Chimundi, responsabile del Cuamm del lavoro nei centri giovanili –. Poi l’unione ci ha dato una forza inedita. Ognuno si è occupato dell’altro, distribuendo anche ceste con vestiti, farina e riso. Abbiamo spiegato come pulire l’acqua con prodotti a base di cloro, per evitare il diffondersi del colera. L’Hiv qui ha un’incidenza del 19%, così abbiamo anche istituito un centralino per seguire i sieropositivi, perché non interrompessero le terapie».

Le donne che fanno parte dell'associazione Kuplumussana, vedove e sieropositive, da anni si sostengono l'un l'altra - Alfieri


Dopo il trauma era necessario ricominciare a vivere. «Non sappiamo quale sarà il futuro dei nostri figli, qui la povertà è spaventosa – ammette un’altra delle donne di Kuplumassana –. Abbiamo risorse, come gas e petrolio, ma temiamo che verranno a prendercele, come già in alcune zone sta avvenendo. I vulnerabili soffrono ma qui chi parla troppo vive poco». Non c’è una persona qui nel bairro, giovane o anziana, che abbia sentito parlare della Cop26 di Glasgow. Già è complicato avere energia elettrica, la tv è proprio un miraggio: nessuno ne ha una. Ma questo non impedisce di accorgersi di cosa accade a livello locale. «Qui vicino imprese cinesi stanno disboscando a più non posso, bisognerebbe lasciare gli alberi lì dove sono, perché quando piove sono l’unico argine che abbiamo contro le inondazioni – sottolinea lo psicologo Hamilton Charles –. Il governo ha fatto un po’ di propaganda, ha detto che ne avrebbe piantati di nuovi, ma il tutto è durato una settimana appena. Così l’erosione continua, mentre il mare ormai è arrivato a mangiarsi pezzi di città».

Dopo il ciclone, la Diocesi di Beira ha speso 350mila euro per le scuole cattoliche e per dare un contributo all’alimentazione di centinaia di famiglie. Inoltre si è mobilitata, anche tramite la Caritas locale, per distribuire materiale per coprire le case, dal legno alle lamiere, e 60mila sacchetti da riempire con la sabbia. Ma niente basterà se i cicloni torneranno a ripetersi. «Nel mondo manca il coraggio di risolvere l’emergenza climatica perché la politica non vede al di là delle prossime elezioni. Finiscono con l’esserne maggiormente vittima Paesi come il Mozambico, che da parte loro inquinano molto poco. Che vita e che opportunità avranno i giovani di qui?», si chiede amaro monsignor Dalla Zuanna, nonostante l’ottimismo sulla «vitalità africana». Torniamo a Macurungo, dove le donne di Kuplumussana e i giovani delle altre associazioni, nonostante ogni tipo di difficoltà, intonano canti di speranza. A bordo strada una mamma tiene in braccio il suo bambino che dorme. Piega il capo anche lei, sembra sfinita. È un’immagine fuori dal tempo, colma di grazia e di chissà quali dolori.