Mondo

MESSAGGIO PASQUALE. Un mondo in cerca di pace: riconciliazione oltre il male

martedì 2 aprile 2013

«Domandiamo a Gesù risorto, che trasforma la morte in vita, di mutare l'odio in amore, la vendetta in perdono, la guerra in pace. Sì - ha esclamato papa Francesco di fronte a 250mila fedeli che prima hanno partecipato alla Messa di Pasqua e poi hanno atteso la Benedizione apostolica - Cristo è la nostra pace e attraverso di Lui imploriamo pace per il mondo intero». Pace per il Medio Oriente, passando per Siria, Iraq, Israele e Palestina, all'Africa, «polmone spirituale dell'umanità» dilaniato dalle violenze, fino alla Penisola coreana. TRATTA. Quegli schiavi invisibili: un affare da 30 miliardiNivaldo Inacio da Silva si sveglia alle sei e alle sette è già in cantiere. Dati i ritardi, i lavori di costruzione dello stadio Arena Pantanal de Cuiaba procedono a marce forzate. Manca poco più di un anno ai Mondiali 2014 e la pressione cresce, settimana dopo settimana. Nivaldo, però, non si lamenta. «L’orario non è eccessivamente pesante e il cibo è buono. Non come prima..». Uno spartiacque marchia la vita di Nivaldo e di altre 40mila brasiliani riscattati negli ultimi tredici anni. C’è “il prima”, ovvero la vita in catene, e il dopo, quella da uomo libero. Che Nivaldo, 40 anni, associa al cantiere dell’Arenal, il primo lavoro vero, in quanto retribuito e volontario. La schiavitù non è un fenomeno d’altri tempi. Tutt’altro. Mai ci sono stati nel pianeta tanti schiavi, 20,9 milioni, secondo le organizzazioni internazionali.  Nonostante i roboanti proclami che la aboliscono, questa è in vigore – certo, in forma occulta – in buona parte del mondo. Come tutte le leggi criminali, anche che quella che regola le moderne forme di schiavitù non si fa condizionare dalle barriere geografiche. Il discrimine è la marginalità di alcune aree di un Paese, di un continente o del mondo. Sono queste “terre di nessuno” i contemporanei mercati degli schiavi, i serbatoi di esseri umani a “buon prezzo”. Donne, uomini e bambini (quasi un terzo) costretti dalla disperazione, cioè, a vendere il proprio corpo o parti di esso, la propria capacità di lavoro o dei propri figli a chiunque faccia un’offerta. Certo, il linguaggio attuale è edulcorato. Non si parla di schiavismo ma di traffico di persone, tratta, manodopera forzata, a seconda del volto che assume. La sostanza è, comunque, drammaticamente analoga. Proprio come la schiavitù antica, quella moderna è un business transnazionale. E terribilmente redditizio. Il terzo più lucrativo dopo il narcotraffico e il commercio di armi, con profitti intorno ai 30 miliardi di dollari all’anno. Oltre la metà dei guadagni – circa 16 miliardi – provengono dall’America Latina, la nuova frontiera della schiavitù attuale. Lì, ancor più che in Asia o in Africa, le vittime sono soprattutto donne o, in un terzo dei casi, bambine, rivendute nel mercato del sesso. Sono tante, tantissimo le città-postribolo disseminate nel territorio che va dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco. Come Tenacingo, nello Stato messicano di Tlaxcala, dove – secondo le denunce di varie associazioni anti-tratta – oltre il 10 per cento dei 10mila abitanti è coinvolta nel reclutamento e nello sfruttamento delle ragazze. O la zona di Madres de Díos, in Perù, dove le bimbe di poco più di 10 anni sono vendute come trastullo ai cercatori d’oro clandestini. Nel Brasile del boom, sono migliaia le persone costrette a lavorare nelle piantagioni o nei laboratori illegali, come coraggiosamente denuncia da anni la Pastorale della Terra della Conferenza episcopale. Non meno drammatica – anche se forse meno nota – la situazione argentina, dove il 78 per cento della produzione tessile è frutto di sfruttamento. E – secondo gli attivisti – gli schiavi sono almeno mezzo milione. Anche in Asia centrale, la forma più frequente è lo prostituzione. Nel resto del continente, invece, è più frequente il lavoro forzato. Come ha ribadito il recente caso degli schiavi delle opere dei Mondiali 2022 in Qatar. In Africa, un terzo delle vittime sono minori: la maggior parte sono baby domestiche o bimbi soldato, arruolati con la forza dagli eserciti, regolari o irregolari.A sconvolgere, al di là dei numeri, è l’assuefazione con cui l’opinione pubblica reagisce di fronte alle attuali schiavitù. Se i contadini-schiavi e i baby soldati, sono difficili da scoprire, spesso, le prostitute sono esibite in bella mostra nel Nord come nel Sud del mondo. E gli elenchi case di moda che utilizzano manodopera forzata, sono facilmente accessibili in Rete. Eppure, gli affari degli schiavisti continuano a prosperare.

Lucia Capuzzi

AMERICA LATINA. Giustizia sommaria anti-narcosÈ uno scacchiere insanguinato. In America Latina i “cartelli” del narcotraffico lottano per il controllo del territorio, ovvero delle rotte e dei corridoi necessari per raggiungere l’obiettivo finale: i mercati dove si vende morte al grammo, gli Usa, ma anche l’Europa e ormai – sempre più – l’Est, l’Oriente. Il business è da capogiro: solo le mafie della droga messicane e colombiane muovono ogni anno fra i 18 e i 39 miliardi di dollari. Fra i luoghi di produzione (Colombia, Perù, Bolivia) e di vendita, il prezzo della cocaina si moltiplica per 50: dai 2.400 dollari al chilo in Colombia schizza ai 120.000 dollari negli Stati Uniti.Lungo la via – dal Messico all’America Centrale – la scia di morte continua ad allungarsi di anno in anno, alimentando una criminalità sempre più diffusa e capillare, che sequestra, rapina, violenta, corrompe autorità, compra connivenza e fa terra bruciata. In Messico, nella guerra fra cartelli rivali e nella lotta delle autorità contro i narcos, dal 2006 al 2012 sono morte oltre 100mila persone. Nella zona di Acapulco – di fronte all’aumento del crimine organizzato – si stanno diffondendo i cosiddetti «poliziotti comunitari» o «gruppi di autodifesa»: civili con il volto coperto da una bandana e il fucile in mano, che promettono protezione quando lo Stato zoppica. Nato nello Stato di Guerrero, poco a poco questo fenomeno è arrivato in altre regioni, in particolare nei municipi indigeni più poveri: da Michoacán a Oaxaca, da Veracruz a Chihuahua, passando per Jalisco, Chiapas e Tabasco. Le cosiddette «milizie civili» trovano terreno fertile nei casi di corruzione e nei legami sporchi fra polizia e criminalità. Nello Stato di Guerrero l’Unione dei Popoli e delle Organizzazioni (Upoeg) in pochi mesi ha “arrestato” – o meglio, catturato – decine di persone accusate di rapimento, omicidio, appartenenza a banda criminale. Gli accusati vengono fermati, sequestrati, sottoposti ad un «processo comunitario» e infine consegnati alle autorità perché venga avviato il normale iter investigativo. Qualche giorno fa nel municipio di Tierra Colorada, a una trentina di chilometri da Acapulco, oltre 1.000 uomini armati hanno arrestato» il capo della polizia locale, accusandolo di aver ucciso un leader delle “autodifese”: con la tensione ormai alle stelle, la sindaco ha ceduto e ha destituito il responsabile della polizia locale. «Non vogliamo causare problemi, vogliamo risolverli: veniamo per ristabilire l’ordine», dice Bruno Plácido Valerio, dell’Upoeg. Un messaggio pericoloso e ambiguo, che viene apprezzato da tanti, per paura. La nascita dei gruppi di autodifesa genera profonda preoccupazione: i precedenti, in America Latina, sono numerosi e il rischio – avvertono gli esperti – è che la situazione scivoli velocemente verso la violenza paramilitare. Del resto sono stati proprio i «poliziotti comunitari» messicani a ricorrere al paragone con la Colombia: di fronte all’indifferenza delle istituzioni – dicono – hanno deciso di imbracciare i fucili per difendersi. In una situazione di grave violenza, il limite fra buoni e cattivi rischia di scomparire, cancellato dal terrore quotidiano. Gli investigatori temono che esistano già dei legami fra i gruppi di autodifesa e i cartelli della droga: questo spiegherebbe, fra l’altro, perché i primi poliziotti comunitari non avevano altro che bastoni e machete, mentre ora circolano con armi più potenti e sofisticate.

Michela Coricelli

ASIA. Nord Corea, altre minacce. Seul: pronti a misure fortiÈ la crisi, quella che contrappone le Coree tagliate in due dal 38esimo parallelo, che più fa paura nell’intera Asia. Primo perché se precipitasse in un vero e proprio conflitto, lo scontro verrebbe combattuto con armi nucleari. Secondo perché chiamerebbe in causa gli Usa da una parte – chiamati a soccorre il Sud – e la Cina – “tutor” politico del Nord, anche se sempre più insofferente nei riguardi di un alleato riottoso e imprevedibile che mette a rischio il bene supremo per Pechino: la stabilità. Sta di fatto che il braccio di ferro tra le due Coree sta assumendo toni sempre più duri. E allarmanti. Un’escalation. Innescata dal test nucleare effettuato dalla Corea del Nord lo scorso febbraio (il terzo in una manciata di anni), inasprita delle sanzioni internazionali, precipitata dalle manovre militari congiunte tra Washington e Seul. Fino all’ultimo, inquietante, tassello: lo «stato di guerra» proclamato da Pyongyang nei confronti di Seul. Anche se gli Usa hanno fatto sapere di non aver registrato per ora «mobilitazioni su larga scala e riposizionamenti significativi di truppe nordcoreane».Proprio dal regime comunista è arrivata la nuova dose di “benzina sul fuoco”, che ha provocato l’immediata replica del Sud. L’Assemblea suprema del popolo ha adottato un’ordinanza per intensificare lo sviluppo delle armi nucleari. Secondo fonti americane riportate dal Washington Post, il regime avrebbe virato verso programmi per la costruzione di ordigni atomici basati sull’uranio arricchito invece che sul plutonio. La prova? Almeno due analisi sulla detonazione, ha riportato il quotidiano Usa nel suo sito online, hanno confermato che gli effetti dell’esplosione sono stati notevolmente contenuti, con la dispersione di poche tracce radioattive nell’atmosfera. I primi due esperimenti, del 2006 e del 2009, hanno usato il plutonio delle scorte di materiale fissile che la Corea del Nord ha sviluppato a fine anni ’90. Mentre, un test riuscito a base di uranio confermerebbe che Pyongyang ha trovato un altro percorso per produrre armi atomiche mettendo a pieno frutto l’abbondanza nel Paese di uranio naturale e nuove tecnologie di arricchimento. Durissima la reazione della Corea del Sud. Seul ha avvertito di essere pronta a rispondere «con forza» a qualsiasi attacco sul suo territorio e intanto schiera i caccia invisibili F-22 inviati dagli Usa, gli “stealth” invisibili in grado di eludere i radar. La presidente sudcoreana, Park Geun-hye, in carica dallo scorso febbraio ha ordinato all’esercito di «rispondere con forza» senza tener conto di «considerazioni politiche» in caso di un attacco dai “cugini”, dove il regime ancora domenica è tornato a minacciare che la regione è «sull’orlo di guerra nucleare». Seul ha cambiato le regole di ingaggio per consentire alle unità militari di rispondere immediatamente agli attacchi, invece di attendere le autorizzazioni.Memore delle critiche piovute dopo il bombardamento nordcoreano di un’isola nel 2010, quando l’esecutivo fu accusato di una reazione troppo lenta, il governo di Seul ha minacciato di colpire lo stesso leader nordcoreano Kim Jong-un e di distruggere le statue dei membri della dinastia, un piano di guerra che ha fatto infuriare Pyongyang.Proprio dalla capitale del regime l’ultimo colpo di scena. L’ex premier Pak Pong-ju, rimosso dall’incarico nel 2007 per non aver attuato le riforme economiche richiestegli, torna alla guida del governo.

Luca Miele
 

MEDIO ORIENTE. L'incubo senza fine della SiriaIl grigio del Muro e il bianco degli insediamenti (ormai una linea senza soluzione di continuità che colora di edifici nuovi la cima delle colline) tagliano come ferite inguaribili la Cisgiordania. La paura del terrorismo e l’aggressività dell’occupazione dividono due popoli incapaci di trovare pace.  

Il conflitto israelo-palestinese, orfano dell’attenzione del mondo – dirottata sulle Primavere arabe, prima, e sull’emergenza siriana, poi – continua a fare vittime nel cuore del mondo e della cristianità. La recente visita del presidente Barack Obama (dal 20 al 23 marzo) ha riacceso qualche speranza sul riavvio dei negoziati. Il leader statunitense ha mostrato una rinnovata determinazione nella volontà di trovare una soluzione alla crisi, ma per tutti – per la popolazione israeliana, per la popolazione palestinese, per gli attori di primo piano che lavorano sul terreno diplomatico – è difficile dimenticare i fallimenti del primo mandato, quando Obama fece della questione mediorientale una priorità senza però riuscire a trovare vie di uscita efficaci.
Il pantano dentro cui si sono arenate le buone intenzioni dell’Amministrazione più forte e incisiva del mondo è lo stesso di tre anni fa. E la questione della colonie resta la mescola più vischiosa. Israele ha un governo nuovo ma con le “esigenze” di sempre: il premier Benjamin Netanyahu è stato riconfermato per la terza volta dal voto del 22 gennaio e nelle scorse settimane è riuscito (con fatica) a formare un governo. Niente partiti ultra-ortodossi nella nuova compagine (questa la sostanziale novità), che peraltro ha di nuovo posato le sue fondamenta su movimenti fortemente di destra (Likud, Israel Beitenu, e il nuovo entrato “Yesh Atid” di Naftali Bennet) che fanno dell’espansione edilizia nei Territori il loro diktat. E nemmeno l’ingresso nell’esecutivo del centrista Yair Lapid sembra poter ammorbidire queste posizioni, visto che anche lui, in campagna elettorale, si è detto favorevole (non senza margini di ambiguità) a una politica forte sulle nuove costruzioni. Le premesse non parlano, insomma, di una svolta. E, a tutt’oggi, l’unico risultato portato a casa da Obama è la ripresa del trasferimento delle entrate fiscali raccolte da Israele per conto dell’Autorità nazionale palestinese (in base agli Accordi di Oslo), congelate per ritorsione in dicembre a causa della richiesta – accettata – della Palestina di essere riconosciuta come Stato non membro dalle Nazioni Unite. Mentre sul campo gli scontri continuano: solo ieri otto studentesse palestinesi sono rimaste ferite in un attacco dei coloni vicino a Nablus.

 

Succede ogni giorno. Poco spazio in cronaca, perché un’altra tragedia, con numeri spaventosi, si sta consumando in Siria. Settantamila morti in due anni di guerra, e più di un milione di profughi, sono il bilancio, tragicamente provvisorio, di un conflitto che non trova sbocchi. Aleppo, Daraa, Homs e Hama sono ormai città martiri, ostaggio degli scontri tra le truppe lealiste e i ribelli. Le popolazioni locali sono costrette a un vero e proprio esodo, che comprime migliaia di persone nei Paesi confinanti (Giordania, Libano e Turchia soprattutto), a questo punto incapaci di contenere l’emergenza.
La comunità internazionale è, di fatto, impotente: si moltiplicano, senza efficacia, gli appelli per la ricerca di una soluzione. Il regime di Assad resiste. E resiste sempre di più: marzo è stato il mese peggiore dall’inizio della rivolta, con più di seimila vittime. Il mondo riesce solo a chiedersi fino a quando tutto questo andrà avanti.   Barbara Uglietti   AFRICA. Nigeria, Congo e Centrafrica. Un ritorno agli anni NovantaLo scorso anno il continente africano ha fatto un tremendo balzo all’indietro: per numero di conflitti aperti e tornato al livello degli anni Novanta. Con un elemento negativo in più: la nascita del jihadismo africano in quella fascia che va dalle coste del Golfo di Guinea fino al Corno d’Africa. E il nuovo anno, nei primi tre mesi, si è presentato con l’inasprirsi di crisi già aperte nel 2012 ed ora incancrenite se non rinvigorite. È il caso della Repubblica Centrafricana che, solo due settimane fa, ha visto l’avanzata vittoriosa dei ribelli jihadisti di Seleka che hanno conquistato la capitale Bangui costringendo all’esilio il già discusso presidente François Bosizé. Soltanto sabato scorso a Bangui sono state scoperte fosse comuni con un centinaio di cadaveri, mentre sono decine di migliaia le persone in fuga in tutto il Paese. Scappano dagli sporadici scontri a fuoco, ma soprattutto dalle violenze diffuse: che non risparmiano le missioni cattoliche e gli edifici sacri messi a ferro e fuoco. Chiese e cristiani che restano obiettivo degli attacchi dei fondamentalisti di Boko Haram anche in Nigeria; attacchi che colpiscono indiscriminatamente qualsiasi istituzione che confligga – nella loro ottica distorta e terroristica – con l’obiettivo di islamizzazione estrema della nazione. L’ultimo episodio è di domenica: a testimoniare lo scontro in atto, 14 integralisti islamici e un soldato sono morti nell’attacco sferrato dall’esercito nigeriano contro un covo del gruppo di Boko Haram a Kano, la più grande città della Nigeria settentrionale. Ma è solo l’ultimo di un percorso di morte dettato dalle ideologie che si unisce al perenne scontro etnico (ammantato, spesso sbagliando, di ragioni pseudoreligiose) che contrappone nelle zone centrali del Paese – dove è più palese il contatto tra le tribù islamiche del Nord e quelle cristiano-animiste del Sud – le popolazioni nigeriane, in un crescendo di attacchi e ritorsioni che solo la settimana scorsa nello Stato del Plateau ha portato all’uccisione di 120 persone. E di altre 20 domenica a Kaduna.Nell’Est della Repubblica democratica del Congo si incancrenisce, invece, un conflitto che non è mai finito totalmente con la pace del 2000 dopo le due guerre che avevano visto il coinvolgimento di otto nazioni africane. Venerdì l’Onu ha stanziato, per la prima volta, un contingente «offensivo» per contrastare nel Kivu le azione violente del gruppo M23 che trae forza e aiuti logistici dai vicini Paesi dei Grandi Laghi. In mezzo la popolazione civile, ostaggio di guerre di potere che si combattono sopra le loro teste.Ha compiuto, infine, un anno anche la guerra in Mali dove la presenza delle truppe francesi dovrebbe essere ridotta a mille uomini alla fine del mese. Il Paese non è però per nulla normalizzato, nonostante i proclami dell’Eliseo: prova ne è lo stillicidio di attentati nella regione di Timbuctu dove i qaedisti, giunti dai Paesi vicini, continuano a mantenere le loro basi e a colpire le impreparate truppe di Bamako supportate dal contingente inviato da Hollande che ha avviato l’ennesima avventura militare francese nel continente.  Fabio Carminati