Mondo

Lotta per la libertà. Tibet, monaci-torcia contro il pugno cinese

Stefano Vecchia mercoledì 11 gennaio 2012
«Quanti tibetani dovranno anco­ra sacrificarsi prima che il mondo si svegli?». La doman­da di Thubten Samdup, rappresentante del Dalai Lama per l’Europa settentrionale e già membro del Parlamento tibetano in esilio, ha il senso di un appello. Accorato e urgen­te, per evitare altre vittime, ma anche per ar­rivare a una soluzione definitiva ed equa del­la situazione del suo Paese. Quindici tentativi di immolazione da mar­zo 2010 da parte di religiosi tibetani in diversi monasteri e località in Tibet hanno portato a un diverso livello di attenzione per la pro­testa degli abitanti contro l’occupazione ci­nese. Una tendenza preoccupante quella dei suicidi pubblici che emerge – tra le pieghe della repressione e di una realtà sovente i­gnorata – attraverso i canali dell’esilio e dei gruppi di sostegno alla cau­sa del Tibet indipendente. Ultimi drammatici esempi di una resistenza disperata e definitiva quelli di un mo­naco e di un laico che si so­no dati fuoco contempora­neamente venerdì scorso nella prefettura di Ngaba, provincia del Sichuan, con la morte di uno e il ricovero in gravi condizioni dell’al­tro, e di Nyage Sonam­drugyu, religioso del mona­stero di Nyanmo, nel Qin­ghai, ai confini con la regione autonoma del Tibet, uccisosi domenica. Un personaggio, quest’ultimo, particolarmente conosciuto: gestiva un orfanotrofio ed era ritenuto un rinpoche, un 'buddha vivente'. Un sant’uo­mo che prima di immolarsi ha distribuito volantini per far sapere che l’atto estremo non era «per la sua gloria personale ma per il Tibet e per la felicità dei tibetani». Atti, anche questi, che hanno suscitato pro­teste dei tibetani nelle località dove si sono verificati e una reazione delle autorità che parlano di «gesti di fanatismo», di «elemen­ti sovversivi» quando non di «delinquenti comuni». Atti che sono doppiamente 'defi­nitivi': nel senso della protesta e nel senso di contraddire la nonviolenza radicata nel­la fede buddhista e da oltre cinquant’anni predicata instancabilmente nel mondo dal Dalai Lama. Tuttavia, come sottolinea Samdup, «quello a cui assistiamo è un chiaro segnale di di­sperazione. I tibetani sono arrivati a un pun­to di rottura e il sacrificio della vita è la loro ultima risorsa. Cos’altro potrebbero fare sen­za danneggiare altri?». «Non solo i monaci, ma tutti i tibetani non hanno diritti sotto i cinesi, che semplicemente non si fidano di loro e non li rispettano, trattandoli come cit­tadini di seconda classe o come barbari», ri­corda ancora l’esponente tibetano in esilio. «Per quanto noi possiamo vedere – precisa Samdup –, i casi di protesta estrema non so­no isolati, ma riguardano diverse località del Tibet storico. Non dimentichiamo, infatti, che il Paese di cui rivendichiamo l’indipen­denza era assai più esteso dell’attuale Re­gione autonoma tibetana ( Tar), includendo anche aree ora integrate nelle province di Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai. Ad e­sempio – prosegue Thubten Sandup – la mia famiglia è originaria del Sichuan, Sua San­tità il Dalai Lama del Qinghai...». La politica del governo cinese nella Regione autonoma e al di fuori di essa poco conce­de alla sensibilità degli abitanti, alla loro cul­tura, religione, lingua e identità; raramente tiene conto del loro parere su questioni che li riguardano strettamente. A parere dei ti­betani della diaspora, del governo in esilio in India e della rete di solidarietà interna­zionale alla causa, dal limitato tentativo in­surrezionale del 2008 la repressione cinese è stata senza precedenti. Sono aumentati arresti arbitrari, incarcerazioni, esecuzioni senza giusto processo e scomparse. Si è re­gistrata una maggiore sorveglianza dei mo­nasteri e una presenza costante della poli­zia al loro interno; tutti elementi che con­traddicono le pretese di normalizzazione di Pechino, l’immagine di benessere e di normalità sotto un governo benevolo che la leadership cinese vuole dare del Tibet. Sempre da fonti della dissidenza o indipen­denti si apprende che nell’ultimo decennio il governo ha introdotto leggi e regolamen­ti che consentono un maggiore controllo sulle istituzioni monastiche e sul riconosci­mento della reincarnazione, centrale nella successione delle guide religiose (lama) del buddhismo locale. Come conferma Thubten Samdup, «dopo la rivolta del 2008 il governo ha convoca­to il 5° Forum operativo sul Tibet per rivedere le sue po­litiche e formularne di nuo­ve. Con una mossa senza precedenti, il forum inclu­deva tutte le aree tibetane al di fuori della Regione auto­noma. Una strategia che suggeriva una volontà di in­tegrazione di tutte le aree già parte del Tibet storico. Il ri­sultato che noi vediamo è che la repressio­ne si è estesa dalla Tar alle altre zone». Un recente rapporto di Human Rights Wat­ch segnala che Pechino, nella contea di N­gaba dove si è registrato il maggior numero di atti di suicidio per protesta, spende per «ragioni di pubblica sicurezza» quattro vol­te e mezzo più della media della provincia del Sichuan. Tutto questo – oltre alla crescente pressio­ne demografica ed economica della mag­gioranza Han, il depauperamento delle ri­sorse locali e il degrado ecologico – ha schiacciato nell’angolo i tibetani, portan­do alcuni a individuare come unica possi­bilità una protesta estrema, affinché la co­munità internazionale possa conoscere il dolore e la disperazione che essi sperimen­tano.