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INTERVISTA. Geddo: «A Mogadiscio i primi segni della rinascita»

Nello Scavo mercoledì 5 settembre 2012
​«La mia prima vista a Mogadiscio, nel febbraio 2010, fu un viaggio in una città fantasma, deserta, distrutta. A distanza di due anni posso dire che qualcosa sta cambiando». Bruno Geddo è il capo dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Somalia. Il diplomatico italiano è stato il primo a riaprire un ufficio con l’insegna delle Nazioni Unite quando ancora lo scontro tra filogovernativi e al-shabaab si svolgeva casa per casa nel centro della capitale.Quali sono i "segnali" del cambiamento?Mogadiscio è davvero un cantiere a cielo aperto e questo dimostra che, malgrado l’incertezza del processo politico, la popolazione ha fiducia. Come dire che dopo 16 anni di fallite conferenze di pace i somali vogliano riappropriarsi del proprio destino prima ancora che i clan e la politica decidano la direzione.Solo un anno fa la città appariva perduta. Ovunque macerie, colpi d’artiglieria e gente in fuga. Oggi?Se non si sapesse che in ogni momento può esplodere una bomba, che possono avvenire omicidi, che i bambini possono restare vittime di ordigni inesplosi, Mogadiscio si presenterebbe al visitatore con l’aspetto di una capitale africana in pieno boom economico.Da dove arriva il denaro per la ricostruzione?Ci sono gli aiuti internazionali, ma va detto che i membri della diaspora somala stanno investendo milioni di dollari che arrivano grazie alle rimesse degli emigrati in Europa, Usa e Canada. Per la prima volta ci sono progetti di recupero di quel che resta dei monumenti pubblici. Le statue, come quella di re Umberto I, sono state polverizzate dai cannoneggiamenti, eppure i somali ne stanno restaurando il basamento. Come se la città, seppure malconcia, volesse riprendersi il suo passato.Gli operatori internazionali hanno ripetutamente denunciato la difficoltà ad accedere nelle aree controllate dai guerriglieri al-shabaab, che spesso bloccavano o razziavano gli aiuti alla popolazione. Ci sono sviluppi positivi?Come operatori umanitari abbiamo un grosso problema: la nozione di sicurezza che hanno i somali non è la nostra. In ampi distretti, per portare aiuti massicci occorre un livello di sicurezza che ancora non c’è. E rispetto agli al-shabaab, che avevano un loro vertice unico, adesso per raggiungere la popolazione bisognosa di assistenza dobbiamo ogni volta trattare con i clan, i potentati locali, le milizie e questo rallenta le operazioni.E quando arrivate, la popolazione come vi giudica?I nostri interventi devono seguire alcuni principi: indipendenza, neutralità, imparzialità. Sia che entriamo in aree presidiate dai governativi, sia che accediamo ai distretti ancora controllati dai fondamentalisti al-shabaab, dobbiamo agire secondo questa rotta. Talvolta i militari etiopici o keniani ci propongono di metterci al loro seguito così da arrivare nei villaggi dopo che essi hanno "spianato" la strada. Ma noi ci rifiutiamo: così facendo verremmo associati ad una parte in causa e in ampie aree i nostri interventi non sarebbero bene accetti dalla popolazione.