Mondo

MESSICO IN FIAMME/3. Cattolici in campo per sfidare i narcos

Lucia Capuzzi venerdì 27 gennaio 2012
​«Mi sento perso. E stanco. Da quando hanno ammazzato mio figlio, il 27 marzo scorso, è come se avessi smarrito la strada di casa. Tutto ciò che ho fatto in questi mesi è il mio modo per ritrovarla». Due occhiaie profonde marchiano il viso da “gringo“ (statunitense) di Javier Sicilia, il “poeta errante”. Ha percorso il Messico da nord a sud, dagli altopiani desertici a ridosso degli Stati Uniti alle foreste tropicali lungo il confine guatemalteco. Accompagnato da migliaia di giovani, adulti, anziani, ha macinato non sa più nemmeno quanti chilometri per «raccogliere il dolore dell’intero Messico ferito da cinque anni di guerra», dice mentre aspira il fumo delle immancabili “delicadas”.Tra i 50 e i 60mila morti ammazzati, almeno 120mila sfollati, 18mila scomparsi. I numeri non rendono l’idea dell’orrore in cui è precipitato il Paese. Difficile ricordare che dietro le cifre si nascondono visi, nomi, storie, mentre la propaganda del governo riduce le morti a «danni collaterali». Sicilia ha dato finalmente volto e voce alle vittime. E ha costretto il presidente Felipe Calderón e il suo esecutivo a guardarle in faccia e ad ascoltarle. La fatica accumulata in questi nove mesi di lotta pacifica traspare dagli occhi chiari del poeta. Che, però, non si ferma. Nei prossimi mesi, Sicilia vuole portare la “sua” Carovana della pace – il movimento che lo accompagna – a nord della Linea (il confine con gli Usa), fino a Washington.La narco-guerra non è solo un problema messicano. Il suo lato occulto risiede al di là del Río Bravo. Lì i cartelli (gruppi criminali) esportano il 90 per cento della coca, la loro principale fonte di reddito. Insieme al denaro, dagli Stati Uniti arriva oltre l’80 per cento delle armi con cui i narcos uccidono. «Fino a quando Washington non fermerà questo flusso e il governo Calderón non cambierà strategia la violenza in Messico continuerà ad aumentare», afferma Sicilia.Sono passati cinque anni da quel 22 gennaio 2007, quando l’allora neoeletto presidente Felipe Calderón dichiarò «guerra la narcotraffico». Ovvero schierò i militari contro la delinquenza organizzata in vari Stati, a cominciare dal “suo” Michoacán. «Da allora, non solo i cartelli non sono stati distrutti, ma si sono rafforzati e hanno esteso il loro potere criminale per tutta la nazione e all’estero, in ben 53 Paesi, fra cui l’Italia», spiega Edgardo Buscaglia, esperto internazionale dell’Onu sul narcotraffico. Se prima le “zone calde” erano gli Stati di frontiera – Chihuahua, Bassa California, Sonora, Sinaloa – ora si combatte ovunque. Perfino a Monterrey e Guadalajara, i due motori economici messicani. La capitale – una sterminata megalopoli di 24 milioni di abitanti – è una fortezza assediata: finora è l’unica scampata all’escalation di mattanze indiscriminate, decapitazioni, sparatorie. «La guerra, però, si avvicina e quando dilagherà qui sarà terribile», dice Marcela Turati, giornalista della rivista Proceso. È il «paradosso della repressione. Quando un governo combatte il crimine solo con la forza, senza colpirne l’infrastruttura economica – ovvero le imprese legali che gli danno supporto logistico – i narcos intensificano la violenza e la corruzione», sottolinea Buscaglia.La pressione militare ha rotto “l’equilibrio mafioso” tra i cartelli, costruito in sette anni di governo-unico del Partito rivoluzionario institucional (Pri). Un’egemonia durata fino al 2000 con l’avvento alla presidenza di Vicente Fox, candidato del Partido de Acción nacional (Pan), lo stesso di Calderón. Nel tentativo di ampliare i loro spazi di manovra, i narcos hanno cominciato a «lottare fra loro come piranha per contendersi la preda», dice Buscaglia. La preda, ossia il territorio messicano. Smembrato in zone d’influenza criminale. Dai confini tutt’altro che definiti. «In ognuna di queste zone, i narcos si difendono dai rivali e dallo Stato radicandosi ancor più nel tessuto economico e politico. Grazie agli immensi patrimoni di cui dispongono e che il governo finge di non vedere», sostiene Ricardo Ravelo, reporter di Proceso specializzato nel narcotraffico. L’82 per cento dei settori economici legali è collegato al crimine. Che si è diversificato. Nelle rispettive zone, i narcos controllano ogni genere di business illegale: non solo traffico di droga ma tratta di esseri umani, commercio d’organi, prostituzione, pornografia, estorsioni… Ventitré tipi differenti di delitto per un guadagno annuale di almeno 100 miliardi di dollari. Di recente, un rapporto del Senato ha denunciato che i cartelli – 12 i principali e oltre 55 i minori – controllano il 70 per cento dei municipi. Un dato allarmante a otto mesi dalle elezioni presidenziali e politiche del primo luglio. «In Messico c’è una triplice guerra: fra i vari narcos, fra criminali e Stato, fra i differenti gruppi paramilitari, assoldati o dai cartelli o dagli stessi governi locali per il lavoro sporco», conclude Ravelo.Nel fuoco incrociato agonizza l’intera società. Che, però, non si rassegna. Calderón continua a ripetere che i 50mila morti sono narcos ammazzati nel corso di regolamenti di conti. In realtà nessuno lo sa: meno del 2 per cento dei delitti viene risolto. «E poi anche i criminali, spesso adolescenti, sono vittime di un sistema che non offre opportunità: 7,5 milioni di giovani non studiano né lavorano», ribadisce Sicilia. «Sicurezza, lavoro e educazione sono l’unica via per combattere il crimine», spiega Malcolm Beith, autore dell’Ultimo narco, pubblicato in Italia dal Saggiatore. La Conferenza episcopale messicana (Cem) lo ripete da tempo. «La cultura è la chiave dello sviluppo. Ed è la società la sola a poter vincere la guerra contro i narcos, non l’esercito», dice convinto padre Manuel Corral Martín, responsabile delle comunicazioni pubbliche della Cem. Sicilia sorride e si rimette in marcia. La strada per tornare a casa è ancora lunga.(3 - fine. Le puntate precedenti sono state pubblicate il 29 dicembre e il 5 gennaio).