Mondo

SCENARI. Medio Oriente: la pace ha bisogno dei cristiani

Giorgio Bernardelli domenica 3 ottobre 2010
SAMIR KHALIL SAMIR È uno degli osservatori più attenti rispetto a ciò che si muove (nel bene ma anche nel male) nelle società del Medio Oriente. Non ha mai esitato a descrivere i pericoli del fondamentalismo islamico. Ma il gesuita islamologo padre Samir Khalil Samir, libanese, è soprattutto un cristiano arabo che sente chiara quella vocazione «alla comunione e alla testimonianza» che il Sinodo che si aprirà domenica prossima a Roma richiama fin dal suo tema-guida.Padre Samir, è giusto parlare di un Sinodo sulle minoranze cristiane in Medio Oriente?Sul termine minoranza bisogna intendersi. Noi cristiani del Medio Oriente non accettiamo di essere considerati una minoranza etnica. Sarebbe assurdo: siamo qui da prima dell’islam, non siamo gente venuta da fuori. E dunque non chiediamo nessuna protezione: siamo cittadini di prima classe dei Paesi dove viviamo ed esigiamo di essere riconosciuti come tali. Siamo invece una minoranza dinamica, nel senso che proprio per le nostre specificità portiamo qualcosa di diverso dentro ai nostri Paesi. È stato il nostro ruolo di ponte con l’Occidente a far entrare in circolo anche in Medio Oriente concetti come quelli di diritti umani, uguaglianza tra uomo e donna, libertà di coscienza... Ma questo implica per noi la consapevolezza di un ruolo, una missione che resta quanto mai attuale».È una missione che, però, deve fare i conti con una presenza che si assottiglia per via dell’emigrazione legata alle difficili condizioni di vita per i cristiani.«Il rischio di veder sparire i cristiani da alcuni Paesi del Medio Oriente è assolutamente reale. Da questi Paesi dove sperimentano la guerra, l’ingiustizia, il mancato rispetto dei diritti umani, chi può se ne va. Trent’anni fa in Libano i cristiani erano il 50% della popolazione; oggi sono il 38% (se non addirittura di meno). In Iraq prima della guerra erano un milione, oggi non arrivano a 350 mila. Se questa tendenza continuasse sarebbe una tragedia. E non tanto per i cristiani, ma per i loro Paesi. Perché l’esperienza dice che nei Paesi in cui emigrano i cristiani arabi riescono a costruirsi un futuro. Ma il problema è il vuoto che lasciano dietro di sé: un impoverimento di tutto il Medio Oriente».Uno dei temi cruciali oggi nelle società del Medio Oriente è il rapporto tra tradizione e modernità. Che cosa potrà dire il Sinodo in proposito? «Il cristianesimo in Medio Oriente è stato sempre portatore di novità. Guardiamo alla stessa epoca d’oro dell’islam: si parla del contributo che la civiltà arabo-musulmana ha portato alle scienze, alla medicina, alla filosofia. Ma da dove viene questo contributo? Dall’ellenismo, che nel mondo arabo ci è arrivato grazie ai cristiani. Le conoscenze di Ippocrate e Galeno le hanno trasmesse loro, tanto è vero che i medici dei califfi erano in gran parte cristiani. E poi la Logica e la Metafisica di Aristotele in arabo sono state tradotte dal siriaco, non dal greco. Anche in tempi più recenti, poi, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i cristiani sono stati protagonisti nella breve stagione del Rinascimento arabo».E oggi?«Il mondo islamico attuale è incapace di affrontare la modernità. La teme, perché la vede andare nella direzione di una secolarizzazione che conduce dritta all’ateismo. Vorrebbero la tecnologia (lo stesso terrorismo musulmano è iper-tecnologico) ma senza il pensiero critico. Il punto vero è che l’islam non ha integrato la modernità nel suo pensiero religioso: il musulmano alla fine ripete certezze. Invece il cristianesimo ha osato assumersi il rischio di un confronto con la modernità. E ribadire nel Sinodo questa idea sarà fondamentale».Però nell’«Instrumentum laboris» non mancano accenti preoccupati rispetto al fenomeno della secolarizzazione: anche tra i cristiani del Medio Oriente si parla della difficoltà di trasmettere la fede ai giovani.«Sì. Ma il punto è che qui ci collochiamo in un ambito diverso: quello della critica rispetto alle derive del mondo secolare. Noi non rigettiamo in toto la modernità; invitiamo all’incontro tra fede e ragione. Era propria questa la sostanza del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Non ci lasciamo ingabbiare in una prospettiva per cui diventa razionale solo ciò che è fisico. Ma questa è un’altra cosa rispetto al bandire ogni possibilità per la ragione critica di indagare la fede».Il Sinodo che si aprirà domenica avrà un volto «plurale» per via della presenza di Chiese, gerarchie e riti tra loro diversi.«In Oriente c’è una varietà di tradizioni spirituali e culturali che è poco conosciuta. Eppure è anche questo un contributo che completa la cattolicità della Chiesa. La tradizione orientale non è una, ma molteplice. La liturgia etiopica – tanto per citarne una – deriva sì da quella copta, ma ha specificità che sono solo sue. E sono una ricchezza per tutti».In che modo?«Prendiamo il tema del digiuno. Nella tradizione occidentale è praticamente sparito, ma questa dimensione della vita cristiana è ancora fortissima in Oriente. Il calendario della Chiesa copta comprende circa 200 giorni di digiuno all’anno. E lo praticano sul serio. Non è solo un gesto: ha dietro tutta una spiritualità sulla forza interiore di fronte alle difficoltà».Il Sinodo viene a coincidere con giorni delicatissimi per il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Come leggere questa concomitanza?«È proprio in rapporto al tema della violenza e della pace che emerge con chiarezza tutta l’originalità della visione cristiana. Noi difendiamo la giustizia ovunque e per tutti. Gli altri invece dicono: questa terra è degli ebrei o questa terra è musulmana. Avremmo anche noi delle ragioni per dire che Gerusalemme è cristiana. Eppure noi non la rivendichiamo come una nostra proprietà: chiediamo giustizia per tutti. Distinguiamo il piano della politica da quello della religione. Ecco perché anche su questo tema cruciale noi cristiani abbiamo un ruolo fondamentale in Medio Oriente. Anche se non è apprezzato come meriterebbe».JOSEPH YACOUBOriginario del nord della Siria, da più di trent’anni docente all’Università Cattolica di Lione, il professor Joseph Yacoub è uno dei massimi studiosi al mondo sul tema dei diritti delle minoranze. Un campo di studio che in questi ultimi anni purtroppo ha dovuto affrontare sempre più spesso a partire da un’esperienza a lui particolarmente vicina: quella dei cristiani perseguitati in Iraq.Professor Yacoub, come guarda al Sinodo che sta per aprirsi?«Fin da quando il Papa ha annunciato la sua convocazione – un anno fa – il mio sentimento personale è stato di grande gioia e speranza. È la prima volta che un Sinodo abbraccia l’intera area del Medio Oriente. C’era stato il precedente del Sinodo per il Libano, ma questa volta lo sguardo abbraccia tutto il mondo arabo e poi anche l’Iran e la Turchia. Ed è molto importante questa prospettiva ampia su una regione che si caratterizza per l’instabilità e – penso in particolare al caso iracheno – per la persecuzione dei cristiani. Sarà un momento importante di visibilità internazionale per i cristiani d’Oriente. E attirerà l’attenzione del mondo sulla loro situazione».In Occidente, quando si parla di Chiese d’Oriente, il nostro pensiero va immediatamente al mondo bizantino. Invece a questo Sinodo sarà molto visibile anche un’altra grande tradizione, quella del cristianesimo siriaco. Che cosa dobbiamo riscoprire di questo mondo?«Sì, è vero, si tende a identificare i cristiani non occidentali solo con la tradizione greca, quella bizantina. Ma quello che Giovanni Paolo II indicava come il secondo polmone della cristianità è fatto anche di altre tradizioni, come quella slava e – appunto – quella siriaca, figlia dei cristiani che parlavano l’aramaico. Ed è una tradizione che ha dato tanto al mondo cristiano con la sua spiritualità e con i suoi padri della Chiesa, come sant’Efrem che è dottore della Chiesa universale».Ma, al di là della sua grande storia, qual è la sua attualità?«Quello siriaco è sempre stato un cristianesimo impegnato a gettare ponti. E non solo per il fatto di essere stati il tramite tra la filosofia greca e il mondo arabo. Si sono spinti anche molto più in là: arrivarono in Cina molti secoli prima di Matteo Ricci, ponendosi già allora in dialogo con il mondo buddhista e taoista, in quella che noi oggi chiameremmo una prospettiva di inculturazione. Il segno più evidente sono le parole in siriaco che si trovano incise nella Stele di Xi’ian, testimonianza del VII secolo che narra dell’incontro tra la religione dell’Oriente cristiano e il mondo cinese. Ancora oggi non dobbiamo dimenticare che in India vivono 5 milioni di cristiani malabaresi, che sono appunto di tradizione siriaca. Sono esperienze che parlano di un modello di incontro tra la fede cristiana e le culture locali che è di grandissima attualità. E in Asia c’è un interesse crescente per lo studio di questo volto del cristianesimo, che è precedente rispetto all’arrivo dei missionari occidentali in epoca coloniale».Il versetto degli Atti degli Apostoli scelto come guida per questo Sinodo parla della «moltitudine di coloro che erano diventati credenti». Sembrerebbe un’immagine un po’ bizzarra visti quelli che sono oggi i numeri dei cristiani in questa regione...«La parola moltitudine richiama il fatto che il Medio Oriente è plurale: la presenza di popoli, etnie, religioni diverse è una delle sue caratteristiche fondamentali. Non c’è democrazia vera senza il riconoscimento di questa verità. E in questo contesto è importante che anche la Chiesa abbia un volto plurale. Sono sette le Chiese che partecipano a questo Sinodo e ciascuna ha la sua liturgia, la sua teologia, la sua organizzazione. Ci tengono alla loro specificità i fedeli ci ciascuna di queste Chiese ed è un fatto importante. Ma nello stesso tempo si riconoscono in comunione con il Papa. Questa pluralità nell’unità è un segno prezioso. E che oggi va declinato in un contesto nuovo. Perché lo statuto di queste Chiese non è più quello di un tempo: l’Instrumentum laboris utilizza l’immagine evangelica del "piccolo gregge" che deve incontrare tante sfide politiche, religiose, economiche. Deve affrontare la sfida del fondamentalismo, che non rispetta la libertà di coscienza sancita dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e quindi minaccia questo volto plurale».Che cosa può dire questo Sinodo alle società musulmane del Medio Oriente?«L’Instrumentum laboris insiste sull’importanza del dialogo nonostante tutti i problemi che conosciamo. Lo fa senza ignorare le preoccupazioni per l’aumento del fondamentalismo islamico e le minacce, le persecuzioni, gli omicidi che hanno avuto luogo in questi ultimi anni contro i cristiani in tutto il Medio Oriente e in Iraq in particolare. A me pare importante che rilanci questo dialogo mettendo l’accento su quella che Benedetto XVI chiama laicità positiva. Si tratta di una parola decisiva per una regione del mondo dove in alcuni Paesi lo Stato è islamico e la sharia è applicata non solo nella vita privata ma anche nei rapporti sociali. Non una laicità qualsiasi, ma l’idea di una laicità positiva è la risposta a questo problema. Perché permette di ridurre il carattere teocratico dei regimi senza pretendere di svuotare dell’elemento religioso la vita pubblica. È la strada per uscire da ambiguità come quelle della nuova costituzione irachena e riconoscere davvero l’uguaglianza tra cittadini di religione diversa. Ma mantenendo però la forza morale insita nelle religioni come un criterio di riferimento etico per la società».Quali speranze ripone la Chiesa caldea dell’Iraq in questo Sinodo?«I caldei – come tutte le altre Chiese in Iraq – attendono questo Sinodo con grande trepidazione. Se n’è parlato molto sulle loro pubblicazioni in inglese, in arabo, in aramaico: vedono in questo evento un segno del fatto che non sono stati abbandonati. Si guarda al Sinodo da Baghdad, da Mosul ma anche dalla diaspora: pochi giorni fa ho incontrato una famiglia di rifugiati che si trova in Turchia; mi hanno espresso il loro auspicio che a Roma si parli anche della loro condizione. Che si solleciti il mondo a dare delle prospettive a queste centinaia di migliaia di persone».