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Longform. Il grande caldo, la grande fuga. L'esodo degli africani, profughi del clima

Lucia Capuzzi, inviata a Nador (Marocco) - ha collaborato Alessandro Galassi lunedì 9 maggio 2022

Alla comunità internazionale fa comodo ignorarlo. E gli stessi protagonisti non ne sono consapevoli. Eppure, la gran parte dei subsahariani che bussano alle porte blindate di Melilla, enclave spagnola in territorio marocchino, fugge dalle devastazioni provocate nei propri Paesi dal cambiamento climatico, a cui l’Africa è particolarmente sensibile pur non avendovi di fatto contribuito. Siccità, alluvioni, bufere hanno ridotto di un terzo la produzione agricola del Continente: il record mondiale. Ai contadini, oltre il 70 per cento della popolazione, non resta, dunque, che partire. Verso la fortezza Europa che li bolla come migranti economici e li respinge.

«Alcuni migrano verso qualcosa. Altri migrano da qualcosa». Ali Mohamed lo dice sapendo di appartenere alla seconda categoria. Proprio come Ahmed Yahiq, Adam Khams, Ahmed Sumsoon Mustafa, Mohammed Ishais e il resto del popolo del “giser”, “ponte” in arabo. Questi giovani sud-sudanesi, in realtà, abitano sotto il ponte.

La fretta può essere fatale quando si è alla penultima tappa della corsa a ostacoli per raggiungere il Nord. Oujda, lungo la frontiera con l’Algeria, è la capitale dell’Oriente marocchino e il trampolino per Nador, distante meno di 150 chilometri. Come la sua città-gemella ma di differente nazionalità: Melilla, enclave spagnola in Africa.



Melilla è un frammento di Spagna conficcato nel Continente africano. L’unica via d’accesso terrestre all’Europa, insieme a Ceuta. E, per questo, blindata, a partire dal 1998, da una triplice barriera di filo spinato e metallo alta dieci metri. La “valla”, la chiamano.

La rete tra Nador (Marocco) e Melilla (Spagna) - fonte propria

In 24 anni di esistenza, il primo muro dell’Europa post Guerra fredda non è riuscito a scoraggiare i migranti dal cercare di oltrepassarlo, come dimostrano i “maxi-salti” del 2 e 3 marzo: quasi in 4mila si sono arrampicati sulla rete in due giorni. Certo, appena qualche centinaio è effettivamente entrato. Come Omar. “Ce l’avevo fatta, ero dentro. Ma dopo qualche ora la polizia mi ha preso: non potevo correre, mi faceva male la gamba. E mi ha rispedito indietro”, afferma il giovanissimo kenyano che ha impresso sulla coscia destra il “prezzo” dello scavalcamento: uno squarcio irregolare lungo quindici centimetri, rammendato con una serie di punti. Giura, però, che appena potrà camminare di nuovo riproverà.


L’alternativa alla “valla” è prendere la strada per el-Ayoun, oltre mille chilometri a sud di Melilla, da dove partono – previo il pagamento di circa 3mila euro ai trafficanti – i barconi diretti alle Canarie. La gran parte del popolo dei barconi non arriva: l’anno scorso sono annegati lungo la rotta atlantica oltre 4mila disperati. Il doppio rispetto al 2020 e alle vittime della direttrice mediterranea. Eppure, gommoni scassati continuano a lasciare il porto di el-Ayoun e 15mila persone attendono nei boschi della zona di salire a bordo.


Nel primo trimestre gli ingressi di migranti
nelle due enclave spagnole
sono cresciute del 239,5%

I profughi non hanno dubbi che è l’Europa il “qualcosa” verso cui migrare, ad ogni costo. Quasi nessuno di loro, invece, sa davvero il “qualcosa” da cui migra.

“Mia madre non aveva più niente da vendere al mercato perché il campo non dava abbastanza cibo e mio padre aveva perso il lavoro”, racconta Michelle, 19 anni, approdata a Nador da un villaggio vicino a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo. E’ partita oltre un anno fa, insieme ai genitori e ai due fratelli più piccoli. E’ arrivata sola e al nono mese di gravidanza. “In Mali, il “passeur” (trafficante) ci ha venduto a una banda di tuareg. Prima hanno separato gli uomini dalle donne. Poi mi hanno trasferito in un altro accampamento. Senza mia madre. Sono stata là per mesi. Mi hanno abusato in tanti: non conosco il nome del padre del mio bambino. Ma so che voglio farlo crescere in Spagna perché a lei o a lui non accada quanto è accaduto a me”.

Farid, 25 anni, originaria di Conakry, capitale della Guinea, è stata più fortunata. La famiglia ha venduto buona parte dell’appezzamento per ottenere i 500 euro per il biglietto aereo e altri mille per procurarsi un permesso di studio per il Marocco: si è ritrovata a Nador, dunque, nel giro di qualche ora. “Tanto la terra non produceva più niente. La stagione delle piogge inizia sempre più tardi. Quando le precipitazioni arrivano, poi, sono così violente... Il raccolto di riso o si brucia o si marcisce”, sottolinea.

Campi in rovina, disoccupazione, crisi.

Michelle, Farid, i sudanesi di Oujda: ognuno ha un qualcosa diverso da cui migrare. Ma c’è un minimo comune denominatore che non riescono a vedere: il riscaldamento globale. Lo riconoscono, nero su bianco, gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), il gruppo di scienziati internazionali riuniti dalle Nazioni Unite. Secondo gli esperti, l’Africa è particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico. La produzione agricola – da cui dipende il 70 per cento degli abitanti – è calata del 34 per cento negli ultimi sessant’anni, più che in qualunque altra regione.


Nel 2018, l’incremento delle calamità naturali ha costretto oltre 3 milioni di subsahariani a lasciare le proprie case. E il loro numero è destinato a moltiplicarsi per cinque nei prossimi trent’anni a meno di un drastico contenimento della CO2 da parte del Nord del mondo, vero responsabile del riscaldamento globale: le emissioni africane sono a malapena il 4 per cento del totale. Eppure, per un crudele paradosso, ne subisce gli effetti più drammatici a causa della mancanza di risorse per ridurli.

Su questo aspetto lavorano, fin dal 1993, il Centro “Homme et environment” di Berkane e il suo fondatore, Najib Bachiri. Un’esperienza pionieristica. Favorita anche dalla specificità dell’habitat naturale. Berkane, cittadina di 100mila abitanti a meno di un’ora da Nador, è un osservatorio privilegiato sulla crisi ambientale: là si concentra la produzione degli agrumi, particolarmente sensibile alle variazioni climatiche. Bachiri, docente di inglese e appassionato di agraria, ha saputo, però, coglierne i segnali con decenni di anticipo. “Sono un buon osservatore”, sottolinea nello studio situato sul retro della chiesa di Sant’Agnese, che custodisce da quando gli fu affidata dai missionari francesi prima di lasciare la città. “Appartiene a loro e ai cristiani che hanno contribuito a costruirla. Io mi limito a tenerla in ordine”, racconta.

Profughi subsahariani a Nador (Marocco) - fonte propria

“L’Africa è una vittima. Soffre le conseguenze di un dramma che non ha causato. L’Africa quasi non produce emissioni a differenza dei Paesi industrializzati. Il loro impatto sull’Africa, però, è tanto forte che spesso la pioggia scompare per mesi e mesi. Quando piove, inoltre, l’acqua che dovrebbe cadere in sei mesi, viene giù in un’ora. Inonda, così, i campi e distrugge i raccolti. I Paesi africani non sono attrezzati per proteggersi dal mutamento del clima, in evoluzione mai tanto rapida”.

“A causa del cambiamento climatico, milioni di persone emigrano. Alcuni si spostano all’interno del Continente, altri vanno fuori. Ma prima o poi il cambiamento climatico colpirà l’intero pianeta. Ciò che stiamo sperimentando noi africani, avverrà anche in Europa. C’è un aneddoto marocchino molto efficace. Quando si cucinano le anguille, si mettono a bollire nell’acqua. Quelle che stanno sotto, più vicine al fuoco, sentono per prime il calore e cominciano a gridare. Le altre, quelle che stanno quasi in superficie, si chiedono il perché di tanto panico. E le anguille del fondo rispondono: “Quanto sta accadendo a noi accadrà anche a voi”.
Allo stesso modo, a proposito del clima, quanto si verifica ora in Africa, avverrà anche in Europa e negli Stati Uniti. Stiamo tutti nella stessa “pentola””.

Nel Sahel la temperatura cresce di 1,5 volte
più velocemente rispetto al resto del pianeta.
La carestia ha colpito 40 milioni di persone


Il Sahel è particolarmente sensibile al riscaldamento globale: secondo l’Alto commissariato Onu per i diritti umani la temperatura aumenta di 1,5 volte più veloce rispetto al resto del pianeta. Come pure la fascia sottostante, compresa tra il Golfo di Guinea e il Kenya dove, tra 2020 e 2021, la carestia ha colpito 40 milioni di persone e favorito l’esplodere di crisi politiche e sociali. Questo spiega perché, dopo un lieve calo dovuto alla pandemia, l’esodo sia ripreso con forza dalla fine dello scorso anno: a partire non sono più solo giovani maschi adulti ma minori, famiglie e donne. Con la Libia sempre più violenta, la pressione sul Marocco e sulla traiettoria atlantica cresce. Nel primo trimestre dell’anno, le “entrate” nelle due enclave spagnole sono cresciute del 239,5 per cento. Eppure la frontiera è blindata da oltre due anni, ufficialmente causa Covid.

I danni collaterali e “inconsapevoli” di questo intreccio perverso tra distruzione dell’ambiente, povertà e instabilità, si accumulano nell’anticamera marocchina dell’Ue: Nador. E intorno alla parrocchia di Santiago El Mayor, dove si trova la Delegación diocesana de migración, un’oasi per quanti bussano – invano – alla porta di Melilla. Di loro si occupa Álvar Sánchez, instancabile gesuita catalano.


All’entrata della chiesa, il sacerdote e i volontari raccolgono e catalogano vestiti e medicine per le migliaia di sub sahariani che, da Nador, bussano alle porte dell’Europa.


La Delegación diocesana de migración ha lanciato, inoltre, di recente, il progetto RefAidFronteraSur: un’App gratuita sul cellulare fornisce tutte le indicazioni sui servizi disponibili per i migranti. (VEDI VIDEO)

Tutto l’anno, tra i 3.500 e i 4.500 migranti attendono il salto nascosti nelle gole e fra la vegetazione del monte Gurugú. I più ci restano settimane o mesi. “Io sono stato una trentina di giorni: ci si organizza per gruppi, si costruiscono baracche, ci si dà delle regole”, racconta Ahmed, partito a 16 anni dal Burkina Faso. Alla fine ha rinunciato a “saltare” ed è rimasto a Nador. La prima norma, insindacabile, prevede di togliere la scheda dal telefono prima di entrare nel campo, in modo da non essere rintracciati dalla polizia che organizza cicliche retate per tenere i migranti lontani dalla “valla”. Così chiede l’Ue che paga al Marocco 346 milioni di euro per cooperare al “contenimento” del flusso. E la Spagna che, a maggio, ha sborsato 30 milioni. “Nei vari accampamenti, si creano dei leader che, oltre a tenere l’ordine, suggeriscono il momento giusto per il “salto” – aggiunge Ahmed -. Nel frattempo, la vita nel Gurugứ è molto dura: si soffre la fame, il freddo. Tanti si ammalano. Un senegalese e un camerunese sono morti di stenti qualche settimana fa”.

«È un delitto voler vivere?»

“E’ indicibile il dolore che devono patire i migranti – conclude padre Álvar -. Sono persone costrette a fuggire dai propri Paesi a causa di conflitti, crisi economiche, cambiamento climatico, disastri naturali. Invece di proteggerle, l’Europa le tratta come criminali. Ma è un delitto voler vivere?”.

(Ha collaborato Alessandro Saccomandi)