Mondo

La crisi. Madagascar, lo stadio di «catastrofe» e la lezione dei 50 alberi per alunno

Elisa Campisi sabato 10 dicembre 2022

Il mercato centrale della cittadina

Sette persone. Per ognuna servono tre barattoli di riso al giorno. In totale fanno 21 barattoli. In un mese sono 630. È questo calcolo che ha spinto due genitori di cinque bambini a bussare per la prima volta alla porta di padre Tonino Cogoni, un missionario italiano che da più di 30 anni opera a Jangany, un villaggio nell’estremo sud del Madagascar. Qui, circa 25 anni fa, il prete ha fondato la scuola Saint Marie, che adesso è frequentata da più di 1.200 alunni. «Questa famiglia proprietaria di campi non avrebbe mai immaginato di dover chiedere un sostegno economico per non dover togliere i figli dalla scuola», dice padre Tonino. La loro storia è quella delle tante famiglie che nel 2022 non hanno raccolto niente. Dopo i quattro anni di siccità e le conseguenti tempeste di polvere solo il 30% delle coltivazioni è arrivato a maturazione. Proprio in questi giorni alla Cop15 sulla biodiversità si discute nuovamente del supporto ai Paesi più poveri e più colpiti dal cambiamento climatico. In Madagascar, dove già il 10% del Pil dipende dagli aiuti di altri Stati, la siccità sta mettendo in crisi l’intero ecosistema. Nell’isola conosciuta per la sua grande biodiversità, molte specie rischiano l’estinzione. Oltre alla mancanza d’acqua, a influire è il “tavy”, la pratica di tagliare e bruciare per estendere le coltivazioni. Nel difficile gioco di equilibrio tra bisogni primari della comunità e salvaguardia della natura a Jangany perdono tutti. «A ogni alunno chiediamo di piantare almeno 50 alberi all’anno, un aiuto per la natura e per loro che ne imparano il valore – racconta padre Tonino – , ma la fauna selvaggia è ormai inesistente».
Il difficile è far comprendere alle comunità l’importanza della conservazione delle foreste quando non si ha neppure la certezza di mangiare qualcosa. «A scuola abbiamo sempre distribuito circa 300 pasti al giorno per garantire un minimo di nutrimento anche ai bambini più poveri, ma quest’anno siamo arrivati a oltre 700. È il segno di un peggioramento della situazione», spiega. Secondo l’ultimo rapporto Fao, il Madagascar meridionale, insieme a Etiopia, Sud Sudan e Yemen, è tra i territori in cui si è raggiunto lo stadio di “catastrofe”, il livello più grave di insicurezza alimentare acuta. A complicare il tutto, l’inflazione che spinge in alto i prezzi di tutti i beni primari, riso compreso. Se con mille ariary, moneta locale, prima si comprava un chilo di riso adesso alla stessa cifra se ne prende solo un terzo.


L’aumento generalizzato dei prezzi riguarda gran parte del Continente africano, ma alcuni dei temi sul tavolo della Cop15 sono invece paradossalmente distanti dal Madagascar. Come per esempio quello dei pesticidi e dei fertilizzanti: «Qui si è talmente poveri che il problema neppure si pone. Semplicemente nessuno se li può permettere», aggiunge il missionario. Eppure, «a Jangany si vive bene», come recita un detto locale. Qui trovano rifugio i migranti provenienti da tutto il sud del Paese. Da villaggio di circa 400 persone in 30 anni si è trasformato in una città di oltre 10mila. «Nonostante la stagione delle piogge sia iniziata e un po’ ne sia già caduta, i 43 pozzi da 15-20 metri sono tutti asciutti, – spiega – . Siamo riusciti, però, a garantire comunque la sussistenza delle persone grazie agli otto forages e al razionamento di quello che resta, con 20 litri al giorno per ciascuna famiglia». I forages sono delle perforazioni che vanno a pescare l’acqua fino a 60 metri di profondità.


Nei villaggi vicini, dove esistono solo pozzi convenzionali, la gente non ha più niente da bere: «Partire o lasciarsi morire per strada. Molte delle famiglie che arrivano qui si sono trovate in questo bivio». Tra gli ultimi venuti dal sud, 517 persone che hanno appena dato vita al settimo quartiere. L’espansione della città e la scarsità delle piogge fanno prevedere per i prossimi anni ulteriori difficoltà. Entro maggio la missione proverà a realizzare altri due scavi in profondità per le risaie e tre da destinare alla popolazione. Non è poco in un Paese in cui una persona su due non ha ancora accesso all’acqua potabile.