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INTERVISTA. Liberia: i fantasmi dei bambini soldato

Laura Badaracchi giovedì 3 novembre 2011
​«I soldati iniziarono a uccidere la gente della mia tribù. Io avevo 2 anni. Mio padre, mia madre, la mia sorellina furono massacrati. Mia zia mi portò via, in un’altra città. Ma lei era vecchia, non è riuscita a sopravvivere a quell’inferno. C’erano delle persone che correvano verso la foresta, le seguii. All’improvviso un uomo mi fece segno di seguirlo. A 7 anni mi diedero un fucile». Lo ricorda Jefferson, uno dei bambini soldato della Liberia, dove migliaia di minori sono stati addestrati dai signori della guerra. Finito il conflitto (che ha visto una fase di recrudescenza dal ’99 al 2003: 250 mila vittime, complessivamente), sono rimasti senza famiglia, guardati con sospetto, pieni di rabbia e immagini terribili negli occhi. Agnes Fallah Kamara-Umunna li ha ascoltati, aiutandoli a perdonarsi e a sperare nel futuro. Lo racconta, insieme ai suoi ricordi di adolescente, nel volume Il gioco dei sogni ritrovat, edito da Piemme (378 pagine, 17,50 euro). Nata e cresciuta a Monrovia durante la guerra civile dal 1989 al ’96, la 43enne Agnes (oggi ha 4 figli e vive a Staten Island, New York, raccogliendo per la Liberia Truth & Reconciliation Commission le testimonianze di chi della guerra è stato protagonista) riesce a fuggire in Sierra Leone, dove resta a lungo in esilio. Torna nella capitale nel 2004 e dai microfoni di Radio Liberia, finanziata dall’Onu, dà voce a vittime e carnefici durante la trasmissione Straight from the heart, "Direttamente dal cuore": lo stesso nome dato all’organizzazione che sta lavorando per la riconciliazione nel Paese africano."E la pace non è ancora arrivata" è il titolo originale del suo libro: perché?«In Liberia le vittime, testimoni e responsabili, non hanno ancora pace. Guarigione e pace sono inseparabili: la guarigione crea la pace. Non ci sarà futuro degno di essere vissuto fino a quando tutti non avremo la pace. Noi in Liberia dobbiamo prima trovare la pace dentro di noi e poi donarla: non si trova all’esterno, ma all’interno della propria anima. Le persone di cui ho raccolto le storie non hanno pace da quando la guerra è finita, perché abbiamo dimenticato che apparteniamo gli uni agli altri».Come gli ex bambini soldato stanno costruendo una nuova esistenza? «Anche se per alcuni è molto difficile. Tutti hanno un modo diverso di affrontare le proprie emozioni. Dopo aver iniziato a parlarne nel mio programma, hanno scoperto che raccontare alla radio le loro esperienze li ha aiutati: condividere i loro sentimenti ha diminuito il dolore in loro. Li ho invitati con tutta me stessa ad avere la pace dentro di sé, l’amore, cercando il dialogo; è molto difficile per loro e non li ho forzati». Ha detto: «Superare il passato non è mai facile. Ciò non significa dimenticare, piuttosto vuol dire riconoscere che cosa è avvenuto prima per vivere ancora una volta insieme».«Sai che non puoi tornare indietro e cambiare il passato: è successo ed è storia, devi accettarlo. Dobbiamo ricordare i fatti negativi accaduti alle vittime e anche pensare a quello che i carnefici hanno fatto: entrambi non dimenticheranno mai ciò che è successo. Devi affrontare il dolore e sfruttare al meglio l’amore che hai: so che è difficile, ma c’è un modo e dobbiamo lavorarci per avere la pace nel nostro cuore».Qual è adesso la situazione nel suo Paese?«Mi sembra che ci siano più sfide da affrontare riguardo ai sopravvissuti della guerra. C’è ancora molto da fare quando si tratta del loro reinserimento: occorre parlare di riconciliazione per il Paese nel suo insieme. Restano una serie di difficoltà in questo processo a causa delle grandi differenze politiche ed economiche tra le tribù. Inoltre illegalità, corruzione e mancanza di rispetto per lo stato di diritto, ingiustizie e mancanza di integrità negli affari, nel servizio pubblico, nel governo: questa situazione offre ai nostri dirigenti e alle autorità l’impressione di poter fare qualsiasi cosa desiderino impunemente, senza responsabilità».Sta crescendo il perdono nelle città, tra le famiglie?«Dopo la guerra, è stata rivolta poca attenzione al ruolo del perdono nelle famiglie e tra i gruppi, come meccanismo per portare la pace alle comunità che hanno conosciuto la violenza. La riconciliazione è un lungo e difficile processo: l’approccio è quello di cercare di trovare le soluzioni ai problemi alla base del conflitto, modificando risentimento e ostilità verso l’amicizia e l’armonia. Ciò che più persone chiamano "guarigione" è la riparazione delle profonde ferite emotive generate dal conflitto; la giustizia è una condizione necessaria ma non sufficiente per la riconciliazione». Come la sua fede l’ha aiutata nel suo lavoro per la riconciliazione?«Sono cattolica e ho fede. Ho pensato a Dio mentre stavo lavorando a queste storie: perché non ha protetto queste persone che hanno sofferto così tanto? Qualunque cosa fosse successa durante la guerra alle persone con cui ho lavorato, ho creduto che sia stato per il loro bene, per un piano di Dio. A ogni modo, accetto la Sua volontà senza metterla in discussione. Finora ho accettato tutto, senza amarezza, senza riserve. Mi sono detta: "Dio sa quello che sta facendo"».