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Africa. Liberato l'italiano Tacchetto rapito in Burkina Faso 15 mesi fa

Redazione Esteri/Internet sabato 14 marzo 2020

Luca Tacchetto e Edith Blais a Bamako subito dopo la liberazione

Si sarebbero liberati da soli, con uno stratagemma, l'italiano Luca Tacchetto e la canadese Edith Blais, rapiti in Burkina Faso nel dicembre 2018. La liberazione è avvenuta in Mali, dopo 15 mesi di prigionia. Lo ha scritto il New York Times, citando due funzionari informati sulla questione. E poco dopo è arrivata la conferma da parte dell'Unità di crisi della Farnesina diretta da Stefano Verrecchia che oltre a coordinare il lavoro sul rientro degli italiani bloccati nel mondo a causa del coronavirus, si sta occupando anche dalla vicenda che si trascinava da oltre un anno.

Luca Tacchetto e la compagna canadese Edith Blais sono tornati liberi in Mali nel corso di una operazione che ha visto coinvolta la missione dell'Onu in Mali Minusma (Missione delle Nazioni Unite in Mali), hanno confermato fonti di intelligence. Sarebbero riusciti a fuggire dai loro sequestratori a Kidal in Mali e avrebbero fermato un'auto facendosi condurre alla più vicina base dei caschi blu dell'Onu: è questa la ricostruzione fatta dal capo della missione Onu Minusma, nel Mali, Mahamat Saleh Annadif. I due giovani, vestiti da tuareg, "sono sicuramente riusciti a fuggire, sono stati prelevati da un veicolo civile che li ha portati al campo di Minusma".

I due si troverebbero, "in buone condizioni, e starebbero tornando a Bamako per poi far rientro in Italia". Le ultime fasi dell'operazione sarebbero, inoltre, state coordinate tra il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio e il suo omologo canadese Francois-Philippe Champagne.

Luca Tacchetto e Edith Blais, in una foto del loro viaggio attraverso l'Africa, fermatosi in Burkina Faso dov'erano scomparsi nel dicembre 2018 - Ansa

Blais e Tacchetto erano partiti in auto dall'Italia, attraversando Francia, Spagna, Marocco, Mauritania e Mali prima di arrivare in Burkina Faso, secondo quanto riportato dai media canadesi. I due erano scomparsi a dicembre 2018 in un'area del Burkina Faso, nota per essere una roccaforte della cellula locale dell'Isis (Daesh), lo stesso gruppo responsabile dell'uccisione di quattro soldati americani in Niger l'anno scorso.

La gioia a Vigonza (Padova)

"Non ho ancora ricevuto notizie ufficiali, ma in paese siamo tutti emozionati e pronti a scoppiare di gioia". Lo ha detto Innocente Marangon, sindaco di Vigonza (Padova), in relazione alla liberazione di Luca Tacchetto ed Edith Blais. Marangon parla con la voce rotta dall'emozione: "Se la notizia è vera siamo contentissimi, ma non potremo festeggiare perché dobbiamo restare a casa. La notizia mi è arrivata via chat da un amico, poi è partito il tam tam e sono stato subissato di chiamate; ho provato a sentire il papà di Luca ma non mi risponde, forse è già in viaggio per andare a recuperare il figlio". Ora si attendono conferme: "In questi giorni siamo impegnati 24h con l'emergenza coronavirus, ma se Luca è stato liberato questo supera tutto il resto. Il problema - conclude Marangon - è che questa grande notizia non deve generare il contrario di quello che dobbiamo fare, cioè rimanere a casa. È una situazione difficile da gestire".

Gli altri ostaggi italiani


E ora mancano all'appello ancora almeno tre italiani. Silvia Romano, la 23enne cooperante milanese rapita, il 20 novembre 2018 a Chakama, a 80 chilometri da Malindi, in Kenya. Sono ancora sotto processo i deu autori materiali del rapimento, anche se la ragazza sarebbe da tempo in mano ad altri gruppi. Abdulla Gaba Wario, Moses Luwali Chembe e Said Adhan Abdi sono accusati di far parte della banda che il 20 novembre scorso ha prelevato la ragazza in un centro commerciale di Chacama, a circa 80 chilometri da Nairobi.
Si è mobilitato invece anche il dipartimento di Stato americano per il romano padre Paolo dall'Oglio: nell'ambito del "Rewards for Justice program", ha offerto una ricompensa di 5 milioni di dollari per informazioni in grado di fare luce sulla sorte di cinque religiosi cristiani in Siria, tra cui padre Paolo, il gesuita scomparso a Raqqa alla fine del luglio di sette anni fa. Anche gli altri quattro sono stati rapiti nel 2013: si tratta del metropolita siro-ortodosso Gregorios Ibrahim e del metropolita greco-ortodosso Boulos Yazigi, rapiti insieme mentre rientravano ad Aleppo da una missione umanitaria sul confine turco, poi del sacerdote greco-ortodosso Maher Mahfouz e del sacerdote cattolico armeno Michel Kayyal.
Infine il missionario Pierluigi Maccalli, rapito in Niger il 17 settembre 2018 . Un rapimento, secondo i più attenti osservatori, che era nelle intenzioni dei jihadisti. Il rapimento di Pierluigi Maccalli, missionario, è infatti cominciato nel 2015. Il 16 e 17 gennaio di quell'anno bruciavano le chiese di Zinder, prima capitale del Niger, e poi quelle di Niamey, la capitale attuale. C'è un sottile filo rosso che lega i due avvenimenti, un filo di fuoco, che si annoda con quello di sabbia. Ed è questo filo immateriale e reale che congiunge e lega gli anniversari muti di questo giorno. Erano quelli i giorni di «Charlie Hebdo», del presidente del Paese che, con molti altri, affermava «io sono Charlie», partecipando poi alla marcia di Parigi convocata dall'allora presidente francese François Hollande. Decine di luoghi di culto e simboli occidentali venivano incendiati e varie persone persero la vita nei disordini occasionati. Si trattava ufficialmente di «vendicare» l'offesa perpetrata alla fede con la nota caricatura del profeta dell'islam.

L'escalation jihadista

"Le armi non bastano. Il nostro Paese rischia di scomparire se non ci difendiamo insieme contro i terroristi, attraverso la preghiera, l'unità e la solidarietà. Soltanto così potremo combattere il terrorismo". Così, solo l'altro ieri, si è espessa la Conferenza episcopale del Burkina Faso e Niger, con padre Pierre Claver Belemsigri, segretario generale della Conferenza. La situazione nel Paese "sta rapidamente precipitando - ha commentato il sacerdote ad Aiuto alla Chiesa che soffre - e non si arresta la serie di attacchi jihadisti che ha già causato la morte di decine di cristiani e ha costretto centinaia di migliaia di burkinabé alla fuga". Secondo l'ultimo bilancio ufficiale del 12 febbraio scorso, sarebbero infatti 765.517 gli sfollati interni, 89.783 famiglie sono ripartite in 169 campi di accoglienza.

Tra i profughi vi sono 369.139 bambini. Padre Claver nota come negli ultimi venti o trent'anni l'islam in Burkina Faso si sia andato trasformando a causa delle correnti fondamentaliste provenienti dalla penisola arabica: "I giovani si recano lì per lavorare o studiare e quando ritornano riportano in patria una diversa visione dell'Islam che ha un impatto sulla convivenza e la coesistenza tra le diverse religioni". "Vi sono dei terroristi burkinabé o stranieri che, pistola alla mano, vogliono far sì che l'intera Africa diventi islamica. Vogliono perfino introdurre la sharia nel nostro Paese". Nonostante la persecuzione i cristiani del Burkina Faso non rinnegano la propria fede. "Al contrario gli attacchi terroristici contro la nostra comunità - conclude il segretario della Conferenza episcopale - hanno rafforzato la nostra fede. Nonostante la loro vita sia minacciata, i fedeli sono fieri di essere cattolici".

La fascia del terrore sotto il Sahara

Nelle ultime tre settimane almeno cinque luoghi di culto cristiani (con oltre cinquanta vittime) sono stati colpiti dai gruppi di jihadisti che ormai si sono votati alla causa, abbracciando le idee dell'Iswap (La provincia dell'Africa occidentale dello Stato islamico), una formazione si sta rimodulando lungo le direttrici del Sahel, con forti legami con i jihadisti di Boko Haram (che opera ormai a cavallo della Nigeria settentrionale, Ciad e Niger) e con le formazioni etnico-indipendentisti della fascia settentrionale di Mali. E proprio in questa galassia, hanno sempre affermato gli osservatori d'intelligence della regione subshahariana, che va comunque trovato il gruppo che aveva in ostaggio Luca Tacchetto e la sua compagna canadese, Edith Blais.


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