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Il reportage. La luce per gli «ultimi degli ultimi» del Libano

Luca Foschi, Beirut mercoledì 18 agosto 2021

La tenda dei volontari di Operazione Colomba a Tel Abbas, in Libano

«Respiriamo tutti la stessa aria», annuncia con caratteri arabi la porta da cui entra Hilal. È arrivato al campo di Tel Abbas in sella a un catorcio, attraversando la remota campagna dell’Akkar, l’asfalto, i campi e la polvere accompagnati da un’eterna corolla di rifiuti e miseria, dove il Libano s’incunea fra Siria e Turchia. Ha letto dell’Operazione Colomba in rete, o nell’opaca costellazione delle speranze che proliferano sui telefoni della comunità siriana rifugiata. Così paga omaggio ad Abu Ghader, il proprietario del terreno sul quale posano fragili le baracche.

Il generoso locatore siede all’ombra degli ulivi e dei melograni, solenne come il gallo che all’alba interrompe incubi e sogni, costringe gli ultimi fra gli ultimi all’identico ripetersi della veglia. Ad ascoltarlo nella tenda spartana che ospita i volontari c’è Valeria. Hilal accompagna il racconto con i gesti e le immagini del telefono. Non è bastato il pestaggio, i libanesi sono arrivati e hanno dato alle fiamme il piccolo accampamento informale. Con pazienza ha ricostruito l’arlecchino di legni e tele, ma l’orrore di quella notte è attecchito nella psiche e ha trovato sfogo sulle gambe della giovane figlia. Si può fare qualcosa? Scoppia in lacrime, frega gli occhi insonni per ricacciare indietro le lacrime.

Andranno a fargli visita la settimana prossima, per capire meglio. Greta presto inizierà un dottorato a Parigi, studierà le forme del trauma nella letteratura della Siria in guerra. Ora è fuori con Silvia, ascoltano una famiglia di là dalla strada. È stata lei a declinare in verticale sulla porta il ribaltamento dell’inferno dantesco. Sono la nostra meglio gioventù.

Negli ultimi cinque anni l’oasi di Tel Abbas ha guadagnato una parete di canne, la ghiaia nello spazio comune, un forno, due piccole cisterne, un capo-campo donna che ha aperto alla collaborazione con altre Ong, promosso le attività scolastiche e l’interazione fra generi, quando al tramonto gli adulti siedono a far nuvole dal narghilè e i bambini assediano bischeri e affettuosi i volontari, luce del divenire immoto. Ma la sostanza dell’Operazione Colomba, legata alla comunità papa Giovanni XXIII, non risiede soltanto nelle minute spese emergenziali, nell’indicazione di altre fonti d’aiuto, nello stillicidio dei corridoi umanitari concessi dallo Stato italiano. Oltre la tenue speranza il sostegno più alto, vivo dal 2013, è sostanziato di presenza, di parole. «Il racconto, il silenzio senza imbarazzo, l’amicizia. Esserci», spiega Valeria. «Volevo colmare la distanza fra gli studi e la realtà», dice Greta. «Mitgefühl», sintetizza Silvia, che viene dal Trentino: sentire con sentimento, senza pietà o compassione. La funesta crisi economica e politica sta evocando i demoni nella popolazione libanese. A pochi chilometri da Tal Abbas, domenica mattina, un tafferuglio nato intorno a un carico di benzina destinato al mercato nero è esploso in tragedia. Una fucilata ha operato da detonatore: 33 morti, ottanta feriti che hanno riempito gli ospedali allo stremo. Tutto ciò che è oltraggio per i libanesi è consuetudine per i siriani. Su di loro, sempre più spesso, si riversa la rabbia. A giustificarla l’obolo donato ai nuclei familiari dalle Nazioni Unite, polverizzato nel valore dalla crisi. Fenomeno ferale, di geografia universale. I bambini siriani lavorano nei campi giornate intere per un euro. Per poco di più i padri, ogni giorno più aggressivi fra le mura sottili degli accampamenti. Le malattie non si curano. Conquistano il corpo, diventano natura, come l’indigenza e l’analfabetismo. Impossibile tornare.
La pacificazione promessa dal governo di Damasco troppo spesso si è trasformata in morte e prigione. Un milione di anime esiliate dalla storia nel grande gioco degli Stati, e l’avvicendarsi ostinato di ragazzi in ascolto. Una memoria per l’oblio, scriverebbe il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish.

Cinque giorni e non ci sarà più luce: una condanna a morte per 65 malati​

Restano solo cinque giorni di elettricità all’American University of Beirut Medical Center. Poi i cinquanta adulti e quindici bambini che vivono grazie ai respiratori moriranno. Seguiranno nei giorni successivi le 180 persone che necessitano di dialisi, e in poche settimane e mesi tutti i malati di cancro.

Il primo, incredibile annuncio del più antico ospedale universitario del Medio Oriente è arrivato sabato, quando l’ufficio di comunicazione ha indicato il giorno di lunedì come termine ultimo per la soluzione dell’emergenza energetica. Solo ieri, nel pomeriggio, un rappresentante dell’istituto ha comunicato che grazie ai trasferimenti di carburante ottenuti nelle ultime quarantotto ore l’ospedale potrà prolungare le proprie attività per altri cinque rapidissimi giri d’orologio.

La crisi sanitaria è solo una delle numerose, interrelate forme del collasso libanese. All’incapacità storica di provvedere al fabbisogno energetico si è aggiunta una crisi economica che ha annichilito il valore della lira, fittiziamente ancorata al dollaro. Quasi tutti i salari si sono ridotti a un decimo del loro potere d’acquisto. La penuria di diesel per i generatori e benzina per le automobili ha ridotto il Paese all’oscurità, costretto i ritmi della vita intorno alle prese di corrente, creato mostri di lamiere arroventate per chilometri lungo le strade e nei piazzali delle stazioni. Una settimana fa, nel nord del Paese, la feroce difesa del serbatoio ha portato a due scontri a fuoco, conclusisi con la morte di tre persone. Viaggiare spesso significa lavoro, medicine, il pane ottenuto con lunghissime e medievali file davanti ai forni, a Tripoli come a Beirut Est, nel quartiere cristiano di Geitawi.


Mentre il direttore della banca centrale Salameh minaccia di sospendere i sussidi, operazione che quintuplicherebbe il costo della benzina, con ritardataria ostentazione il governo provvisorio ha spedito l’esercito a rovistare fra serbatoi e casolari. Da tempo è conosciuto l’accumulo per il mercato nero e la vendita a prezzo maggiorato in Siria. È stato uno di questi ritrovamenti a causare l’esplosione che domenica mattina, nel piccolo centro di Tleil, ha ucciso 33 persone e ne ha ferito 80. Durante la distribuzione consolatoria di un carico clandestino un colpo d’arma da fuoco o un accendino avrebbero innescato l’ecatombe. Mentre la casa del proprietario della stazione veniva consegnata alle fiamme, alcuni giovani occupavano quella del deputato Tareq Merhebi, rappresentante della regione dell’Akkar per il partito sunnita di Saad Hariri.


Intanto, decine di feriti venivano trasferiti negli ospedali della capitale, gli unici capaci di garantire cura a ustioni e ferite gravi. «Il Libano ha sempre saputo rialzarsi con dignità, ma questa volta è diverso. Non ho più nipoti qui, son tutti partiti negli ultimi mesi. La speranza non può più esistere», dice sconsolata Maya El Hachem, italo-libanese e primario di dermatologia del Bambin Gesù, mentre attende i parenti fuori dall’aeroporto. È arrivata a Beirut ieri sera, carica di medicinali per tutta la famiglia.