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ALBANIA. La ribellione e i «fantasmi» del passato: così il Paese si allontana dall’Europa

Giovanni Ruggiero sabato 22 gennaio 2011
Gli spari di Tirana, i morti e i feriti, non servono al Paese, da anni in coda per entrare in Europa, pur facendone parte geograficamente per la sua vicinanza, all’Italia in primo luogo. Non si può non sottolineare una sorprendete coincidenza storica che suscita qualche brivido. D’emozione, se non altro. Nei primi giorni del 1991 – e si era proprio alla fine di gennaio – gli studenti di Tirana protestavano in modo energico (ma pacifico), mettendo in imbarazzo un regime agli sgoccioli. A 20 anni di distanza, nella stessa strada che da Piazza Scanderbeg porta all’università, ma nel bel mezzo, dove è la sede del governo, segni di rivolta fanno tremare il Paese. Ma la posta in gioco adesso è differente. Venti anni fa si dava l’ultima picconata a un regime obbrobrioso che Ramiz Alia aveva ereditato dal dittatore Hoxha, tenendolo in vita come in sala di rianimazione. Oggi si rischia di affossare venti anni di sforzi che, comunque, il Paese ha fatto verso la democrazia e verso lo sviluppo. Quella rivolta, che aveva tra i leader Sali Berisha, oggi oggetto di rivolta, dava speranza all’intero Paese che assaporava la democrazia. Oggi, invece, la rivolta fa paura a tutti. Non serve nemmeno all’opposizione che ha per leader il sindaco di Tirana, Edi Rama, erede dei socialisti della prima ora, orfani di Hoxha, adesso ritiratisi (anche gli scandali lo hanno consigliato) a una bella vita all’estero, da dove la notte sognano Tirana.Di tutti i Paesi dell’Est (ma l’Albania fa storia a sé perché divorziò dall’Unione Sovietica dopo il tradimento da parte di Krusciov del verbo staliniano), o comunque di tutte quelle nazioni che sono vissute appartate dal resto dell’Europa e dal mondo, il Paese delle Aquile è quello che ha vissuto nella peggiore arretratezza. Del tutto naturale che non raggiungesse il pieno sviluppo in tempi brevi. Sono pochi anche venti anni, perché i quaranta e più passati nella miseria non sono paragonabili al passato triste di altri Paesi. In Albania, tra il 2004 e il 2008 la crescita complessiva è stata appena del 6 per cento, il tasso di disoccupazione è attestato al 12,7 per cento, ma è il dato ufficiale, perché di fatto sfiora il 30. E tuttavia, nell’area balcanica immediatamente confinante, l’Albania è più avanti in fatto di sviluppo del Montenegro, della Macedonia e del Kosovo. Nessuno, né Berisha né quelli che lo hanno preceduto e con i quali si è alternato, possiede la bacchetta magica necessaria per un Paese ridotto così.Si è temuto ieri (Mesile Doda esponente del Partito di Berisha ha parlato di golpe) un nuovo 1997, che è stato l’anno terribile per la rinata democrazia albanese. Il Paese fu scosso dalle rivolte, da Valona a Scutari, a seguito del crac delle finanziarie. Ci furono dei morti anche allora, perché i kalashnikov erano in quasi tutte le case, e con brivido si pensò che l’Albania potesse rituffarsi nel passato. Fortuna che adesso il Paese è disarmato. In Albania, come segno di maturazione culturale, non c’è mai stato un processo storico del passato, sicché le antiche rivalità riaffiorano spesso e basta un niente perché la scintilla incendi le città, come è avvenuto ieri a Tirana.I risultati delle elezioni politiche del giugno 2009 non sono mai stati accettati dai socialisti di Edi Rama, antagonista diretto di Sali Berisha, sicché da allora non hanno mai smesso di chiedere nuove elezioni. Oggi, la richiesta è ancora più imperiosa in vista del prossimo voto amministrativo di maggio che servirebbe ai socialisti per rileggere il voto, verificarlo e riconquistare posizioni perdute. L’idea poi che il governo Berisha sia corrotto, è stata suffragata dallo scandalo Ilir Meta, vice primo ministro, costretto alle dimissioni per un video in cui, con un altro esponente del suo partito, si dividerebbe la torta di un appalto. In un Paese che attende un recupero di circa mezzo secolo di arretratezza, evidentemente un simile video rappresenta dinamite.Gli spari non servono dunque all’opposizione socialista, perché nessun Edi Rama, Ndre Legisi o Pandli Majko, saprebbe come spiegare all’Europa, alla cui porta l’Albania sta bussando, che una protesta contro un governo, per quanto possa essere corrotto, può trasformarsi in rivolta, perché in Albania non ci sono più muri da buttare a terra.