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Zero-Covid. La rabbia cinese arriva fino a Xi

Luca Miele martedì 29 novembre 2022

Sono solo fogli bianchi, ma sopra c’è «scritta» tutta la rabbia dei cinesi contro la politica dello «zero Covid» perseguita dal governo. Questa la forma di protesta scelta dagli studenti. Nella foto, quelli di Hong Kong

L'impensato è accaduto. La rabbia che da anni ribolle sotto la pelle del gigante asiatico e che tre anni di spietata politica “Covid zero” hanno nutrito fino a renderla incandescente, ha forato la cappa - fatta di censura asfittica e controlli capillari - con la quale il regime imbriglia il Paese. Ma ha fatto di più: è salita fino a lambire l’Olimpo del potere comunista, ha circondato il suo “nucleo”, osando chiedere le dimissione del presidente Xi Jinping. Per gli analisti non ci sono dubbi: una protesta così estesa e radicale non accadeva dai tempi di Piazza Tienanmen, l’ultimo e fatale sussulto della società cinese in cerca di democrazia.

L’onda è partita nel fine settimana per poi dilagare in almeno 16 città, secondo il computo fatto dalla Cnn. Shanghai e Pechino in testa. Poi Nanchino, Qingdao, Chengdu. Ma anche Wuhan, il capoluogo dell’Hebei, epicentro della prima ondata del virus, quella che si è diffusa in mezzo mondo. E mentre l’Onu ha chiesto a Pechino «di rispondere alle proteste in conformità con le leggi e gli standard internazionali sui diritti umani», i contagi hanno toccato nel Paese un nuovo record: oltre 40mila casi. Ovunque gli slogan dei manifestanti sono stati gli stessi, identici i simboli sventolati - quei fogli bianchi segno della protesta per eludere la censura ed evitare l'arresto -, uguale la richiesta a Shanghai come a Pechino: basta interminabili quarantene di massa, basta tamponi ogni 48 ore, basta massicce ingerenze nella vita dei cittadini. La miccia si è accesa dopo che un incendio - divampato giovedì scorso in un edificio residenziale di Urumqi, il capoluogo dello Xinjiang - ha divorato dieci vite. Per i manifestanti si tratta di persone rimaste intrappolate nei loro appartamenti a causa delle misure anti-Covid. Le autorità locali hanno prima cercato di minimizzare, poi si sono scusate pur negando l’esistenza di un nesso tra la tragedia e le politiche di contenimento del virus. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian ha parlato di non meglio precisate «forze animate da secondi fini». Dopo le violenze del fine settimana, ieri gli agenti hanno eretto grandi barricate azzurre lungo la Urumqi Road di Shanghai in previsione di nuove, possibili “eruzioni”.

Domenica nella città, si sono verificati duri scontri tra i manifestanti e la polizia, con le forze dell’ordine che ha portato via un autobus carico di persone. Tra le “vittime” anche un giornalista della Bbc, arrestato mentre documentava le proteste. Ed Lawrence è stato trattenuto per diverse ore prima di essere rilasciato. «È molto preoccupante che uno dei nostri giornalisti sia stato aggredito in questo modo mentre svolgeva le sue funzioni», ha commentato la Bbc, mentre il governo cinese ha dichiarato che il giornalista non aveva mostrato l'accredito. Londra, a sua volta, ha definito «inaccettabile e preoccupante» l’arresto.

«Qualunque cosa accada, la libertà di stampa dovrebbe essere sacrosanta», ha detto il ministro Grant Shapps. Le riprese rimbalzate sui social mostrano diversi agenti di polizia che afferrano il giornalista e lo inchiodano a terra. Ma non basta. I filmati mostrano i manifestanti urlare slogan contro il Partito comunista e chiedere le dimissioni del presidente Xi Jinping, considerato il vero demiurgo delle politiche anti-Covid. A Pechino, secondo quanto riferito da uno studente dell'università Tsinghua, uno dei più prestigiosi atenei del Paese, tra i 200 e 300 studenti hanno protestato dopo l'affissione di un foglio bianco, nuovo simbolo delle proteste anti-lockdown. Nella capitale le autorità sanitarie hanno cercato di correggere il tiro, assicurando che le aree ad alto rischio saranno definite in maniera «più precisa». Le aree di rischio potranno essere poi espanse nel caso non sia chiara la trasmissione del virus o nel caso in cui il virus si sia effettivamente diffuso, ma solo dopo una «valutazione rigorosa». Un approccio in linea con le richieste della leadership cinese di un approccio più «mirato» e «chirurgico. A Guangzhou, invece, si punta a ridurre il numero di tamponi effettuati sulla popolazione.