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South Carolina. Strage razzista, missione incompiuta di Obama

Elena Molinari venerdì 19 giugno 2015
Circa 50 anni fa dal pulpito della chiesa “Madre Emanuel” di Charleston ha predicato Martin Luther King. Prima ancora i suoi muri, fra i primi a offrire rifugio ai fedeli afro-americani, erano stati dati alle fiamme per aver protetto una rivolta di schiavi. Il suo pastore, il reverendo Clementa Pinckney, nelle ultime settimane aveva organizzato veglie di preghiera per Walter Scott, il nero disarmato ucciso con otto colpi alla schiena da un agente bianco. La scelta del luogo della strage di mercoledì notte (con 9 morti, a opera di un ragazzo di 21 anni) dunque è stata oculata. Anche il momento è stato studiato: ogni mercoledì sera la congregazione metodista- episcopale si riunisce per studiare la Bibbia. E le vittime – il pastore, sua sorella e altri sette fedeli – sono state prescelte: i tre uomini e le sei donne sono stati uccisi perché erano neri. Ma se sia la giustizia che l’opinione pubblica americana ieri non avevano dubbi sulla natura razzista dell’ennesima strage delle armi, sarà più difficile per gli Stati Uniti mettersi d’accordo sulle responsabilità di un «sistema e di un modo di vivere che hanno prodotto questo omicidio», come ha detto lo stesso Martin Luther King. Ieri infatti il sindaco di Charleston ha chiamato la sparatoria «il lavoro di una mente squilibrata». Ed è un’analisi inconfutabile. Solo un pazzo entrerebbe in una chiesa, pregherebbe per un’ora insieme ai suoi fedeli e poi li crivellerebbe di colpi a distanza ravvicinata.  Ma come un atto di terrorismo di un “lupo solitario” trova autogiustificazione nelle campagne d’odio di organizzazioni estremiste, la pazzia di un ventunenne con turbe psichiche si incanala verso l’odio per i suoi concittadini di pelle scura quando epr tutta le vita assorbe messaggi di disprezzo per i neri.  Il risvolto più amaro della strage di Charleston è infatti che la riconciliazione promessa da Barack Obama quasi sette anni fa in uno storico discorso sulle relazioni razziali non è avvenuta. Non si può attribuire tutta la responsabilità al primo presidente nero della storia americana. Ma è innegabile che il capo della Casa Bianca non ha ancora trovato un modo incisivo di parlare di razzismo ai suoi connazionali. Non a caso, quattro americani su dieci sono convinti che le relazioni tra le etnie sono peggiorate dalla sua storica elezione. Anche ieri, il commander in chief è apparso indignato, addolorato, e si è detto «arrabbiato» per la «tragedia insensata di Charleston ». Ma ha scelto di inquadrare la strage quasi esclusivamente nella cornice, pur pertinente, della questione delle armi negli Stati Uniti. Sul movente dell’omicidio, il presidente si è limitato a dire che la solidarietà e compassione che susciterà attraverserà le linee di demarcazione fra le razze delle fedi e aiuterà la chiesa di Charleston a «sollevarsi ancora una volta».  Accontentandosi di osservare che «l’odio fra le razze e le fedi rappresenta una minaccia particolare alla nostra democrazia e ai nostri ideali», Obama conferma l’insoddisfazione degli americani che speravano in un più profondo dibattito sul rapporto fra le razze nel Paese. E in qualche modo offusca il coraggio con cui ha stigmatizzato atti di violenza come quello della chiesa metodista come fenomeni tipicamente americani, che «non si verificano con tanta frequenza in altri Paesi sviluppati».  Il resto del Paese però non si accontenta e si interroga su un possibile collegamento fra l’incriminazione di un crescente numero di poliziotti bianchi e la “vendetta” del ventunenne della Carolina del Sud.  O su quanto nel cosiddetto «orgoglio degli abitanti del Sud» che considerano ancora un’invasione l’appartenenza agli Stati Uniti imposta dalla guerra civile e un sopruso l’abolizione della schiavitù, si nasconda qualcosa di più pernicioso di una semplice tradizione culturale che si identifica nella bandiera degli Stati confederati del Sud. Infatti nella Carolina del Sud sono attivi almeno 19 gruppi legati all’odio razziale, compreso un folto gruppo del Ku Klux Klan. E non a caso proprio ieri la Corte suprema americana, propensa a difendere ogni forma di diritto d’espressione, ha dichiarato incostituzionali le targhe automobilistiche che riportano il vessillo confederato usata durante la guerra civile. La stessa che Dylann Roof aveva affisso sulla auto nera sulla quale è stato arrestato.