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Le parole del Papa . Colombia, gli «ultimi passi» della pace possibile

Lucia Capuzzi domenica 27 dicembre 2015
Non è più un sogno. Quello appena trascorso potrebbe essere stato l’ultimo Natale di guerra per la Colombia. Un conflitto lungo 51 anni, costato oltre 220mila vittime e sei milioni di sfollati interni. L’era delle autobomba in pieno centro, dei rapimenti alla luce del giorno, dei villaggi trasformati in cumuli di cenere fumante e dei massacri di contadini potrebbe essere confinata nel passato. Il presente è il «tempo della pace» e il futuro prossimo quello «della riconciliazione», ha affermato, nel tradizionale messaggio di auguri alla nazione, il presidente Juan Manuel Santos. Il Paese si dirige, a passi oramai spediti, dopo oltre tre anni di trattative in corso all’Avana, verso la firma dell’accordo tra il governo e il principale gruppo guerrigliero, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc). Una speranza concreta nello scenario internazionale dilaniato dalla “terza guerra mondiale a pezzi”, secondo una fortunata espressione di papa Francesco. Quest’ultimo, prima della benedizione Urbi et Orbi, il giorno di Natale ha ricordato Bogotà e pregato affinché la gioia del Natale «illumini gli sforzi del popolo colombiano perché, animato dalla speranza, continui con impegno a perseguire l’agognata pace».  La trattativa è agli sgoccioli. Il 14 dicembre, le due parti hanno concluso il quarto punto dell’agenda negoziale. Quello più spinoso: la giustizia post-conflitto. Ovvero le pene previste per i responsabili di crimini di guerra. Non solo guerriglieri, ma anche militari o esponenti delle numerose formazioni armate, d’ogni orientamento ideologico e criminale, nate nel caos. Arduo trovare un minimo comune denominatore tra le giuste rivendicazioni delle vittime e la legittima necessità di coinvolgere gli ex carnefici nel processo di pace. Su tale scoglio, il negoziato è rimasto incagliato per un anno e mezzo. Cruciale per sciogliere l’empasse, l’impegno della Chiesa colombiana e della Santa Sede. Il 20 settembre, è risuonato con forza nella Plaza de la Revolución dell’Avana, l’appello di papa Francesco affinché la lunga del dolore «con la volontà di tutti i colombiani, si possa trasformare in un giorno senza tramonto di concordia, giustizia, fraternità e amore». Tre giorni dopo, c’è stato il primo passo verso la “quadratura del cerchio”, con l’annuncio della creazione di tribunali speciali per giudicare quanti si siano macchiati di torture, sequestri, massacri. E la possibilità per chi ammetterà le proprie responsabilità e risarcirà le vittime di essere sottoposto a pene in qualche modo restrittive per un massimo di otto anni. Il progresso storico è stato suggellato da un altrettanto storica cerimonia con la stretta di mano tra gli ex acerrimi nemici: Santos e il leader delle Farc, Ricardo Londoño alias “Timochenko”, sotto lo sguardo “incredulo” del presidente cubano Raúl Castro. In quell’occasione è stato anche fissato il termine massimo per la sigla dell’accordo definitivo: il 23 marzo.  La data si avvicina. Per questo le parti hanno voluto concludere entro il 2015 la trattativa sulla giustizia, sulla quale mancavano da definire ancora numerosi i dettagli. Ora resta solo l’ultimo punto: la fine delle ostilità con smobilitazione e consegna delle armi. Una questione “tecnica”. Per questo, fonti del governo sostengono che l’attesa firma potrebbe arrivare già prima di marzo. Poi, però, l’accordo dovrà essere ratificato, in una forma ancora da stabilirsi. Le Farc preferirebbero una Costituente. Un’ipotesi improbabile. Più realistico, invece, pensare a un referendum. Pronunciare la parola “fine” spetterà comunque ai colombiani.  Non è un caso che il Papa si sia rivolto proprio a questi ultimi. Né è casuale che il presidente Santos lo abbia ringraziato calorosamente. La guerra, oltre che un business, è stata un’arma politica importante per tanti. L’opposizione al negoziato e ad un eventuale accordo è tuttora il cavallo di battaglia dell’ex presidente Álvaro Uribe e della sua formazione. «Non capitoleremo di fronte alle Farc», ripete di continuo. Un messaggio potente per una parte dell’opinione pubblica, ferita dalla violenza. Da qui l’esigenza del governo di coinvolgere la gente nella causa della pace, mai così vicina. Affinché quello del 2016 possa essere davvero il primo del dopoguerra.