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Brexit. La Gran Bretagna saluta l'Europa. Johnson: «L’alba di una nuova era»

Paolo Alfieri inviato a Londra sabato 1 febbraio 2020

Erano le 11 di sera a Londra, la mezzanotte italiana, quando Parliament Square ha scandito il conto alla rovescia per l’addio all’Unione Europea. Dopo 47 anni il Regno Unito è fuori e da oggi ha formalmente inizio la transizione che entro l’anno dovrà vedere la firma di un’intesa con l’Unione Europea su aspetti vitali come commercio e sicurezza. Davanti a Westminster si sono riuniti nella notte i brexiteer duri e puri, incitati dal più noto degli euroscettici, Nigel Farage. Canti, profusione di bandiere con l’union jack britannica, “Rule Britannia!” urlato a squarciagola.

A Downing Street il premier britannico Boris Johson ha scelto festeggiamenti più sobri. Un’ora prima dell’addio, il suo messaggio alla nazione è stato improntato all’ottimismo. Il leader conservatore ha richiamato all’unità un Paese profondamente lacerato, anche se in maggioranza forse sollevato dalla sensazione di aver dato almeno un primo taglio alle incertezze. Ha definito questo passaggio - comunque epocale - "l’alba di una nuova era", che "non segna una fine, ma un inizio". Ha rivendicato l’addio come "una scelta sana e democratica" sancita "due volte dal giudizio del popolo", tanto nel 2016 quanto alle elezioni del dicembre scorso.

E ha esaltato le speranze di un rinnovato slancio all’interno di un ruolo europeo e globale "indipendente" del Regno, ma anche di una "cooperazione amichevole" di buon vicinato con gli ex partner dell’Ue. Ha inoltre spronato i compatrioti a "scatenare il potenziale" d’una nazione che fu impero, a credere nel cambiamento come alla chance di un "clamoroso successo". Non senza insistere sulla convinzione che la direzione intrapresa dal club europeo, pur "con tutte le sue ammirevoli qualità", non fosse più adatta al destino britannico.

Ansa


Ammainate dagli uffici istituzionali, chissà se per sempre, tutte le bandiere europee. Tre anni e sette mesi dopo il referendum che ha sancito la Brexit, Londra è fuori, trascinata via soprattutto da quella provincia dai capelli bianchi venuta qui a riprendersi la scena. Perché se la capitale è stata dal referendum in poi il fulcro su cui i “remainers” puntavano le loro residue speranze di una marcia indietro, dalle Midlands e da quel Nord un tempo laburista e operaio è arrivata, alle elezioni di dicembre, la spinta finale verso l’uscita, a 47 anni dall’ingresso nelle comunità europee.


A Westminster la St. Stephen’s Tavern vende birra come forse non mai, mentre va a ruba la moneta commemorativa della Brexit da cinquanta centesimi. “It’s coming home, it’s coming home, Britain’s coming home”, si lancia il gruppo degli entusiasti. Più in là c’è chi prova, isolato, a bruciare una bandiera europea in un tentativo neanche del tutto riuscito. Sfilano in lontananza gruppetti anti-Brexit, teneri e irriducibili, in una sorta di veglia a lutto attorno ai palazzi governativi: sperano che quello all’Ue sia solo un arrivederci, ma è inutile sperarci, per ora la guerra è persa.

E’ un orologio luminoso a scandire il conto alla rovescia degli ultimi 60 minuti in Europa, un gioco di luci sottolinea il legame tra le quattro nazioni del Regno Unito ed è facile immaginare le facce degli europeisti scozzesi, che vogliono ora l’indipendenza da Londra. Il Big Ben assiste austero e impassibile e muto, incerottato da impalcature che ne impediscono i rintocchi e, forse, la complicità. Da oggi pronunciare Brexit qui è addirittura vietato. E chissà davvero questo, secondo Johnson, cosa mai vorrà davvero dire.