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Reportage. A Kirkuk si gioca il futuro dell'Iraq

Luca Geronico sabato 23 agosto 2014
Trenta chilometri o poco più, appena dietro la cintura naturale delle colline, c’è quella che chiamano la “linea di contatto” tra i curdi e gli arabi dello Stato islamico (Is), il “Daish”. C’è molta calma in questo venerdì di festa a Kirkuk, mentre la “fiamma perenne” del giacimento di Baba Gurgur, il soffione vulcanico che da 4mila anni brucia ininterrotto, è come il simbolo dell’eterno contrasto con Baghdad. La delegazione curda di Pdk, Upk, Goran e altri due partiti islamici, proprio ieri ha preso i contatti nella capitale con il premier incaricato Haidar Abadi. Primi passi di una nuova, ma anch’essa in realtà perenne, trattativa. La calma indolente del pomeriggio sembra voler esorcizzare la profonda inquietudine che da “dopo il 9 giugno” si respira. Il Califfato, ti spiegano nel quartiere curdo di Imama Qasim, sotto l’antica rocca semidistrutta, poteva scegliere di attaccare Kirkuk invece di Mosul. Uguale è stata invece la rotta dell’esercito, quella dodicesima divisione che nel giro di poche ore ha abbandonato tutte le postazioni. «Non era un esercito nazionale». Ne è certo Abdulrahman Mustafà Fatah, governatore del distretto di Kirkuk dalla caduta di Saddam al 2011. Le divisioni settarie, acuite dalla politica personale di Maliki, si sono riversate fra i militari come nella società. Squagliato, come neve al sole del deserto, un decennio di politica internazionale di ricostruzione dell’esercito locale con istruttori americani e britannici. È stato solo l’immediato arrivo a migliaia dei peshmerga a occupare le postazioni lasciate scoperte, e i raid Usa, ad aver ridato sicurezza ma anche speranza ai curdi: si potrebbe chiamare il confine del 9 giugno, la linea che include Kirkuk al governo regionale autonomo di Erbil. Quella, per Hamed Aziz, influente esponente del Goran, il secondo partito al parlamento curdo, è stata una «liberazione».Inevitabile che in questi giorni a Baghdad torni sul tavolo la questione delle “zone contese” che la Costituzione del 2005 si impegnava a risolvere entro il 2007. Quasi dieci anni di attese e promesse vane. «L’emergenza creata dall’Is dovrebbe favorire la formazione di con governo di unità nazionale guidato da Abadi», commenta l’ex governatore Fatah. Ma se il premier sciita dovesse fallire, il trattato di Seyes-Picot «sanciva già allora la divisione tra sunniti, sciiti e curdi». Una città in bilico in uno Stato che, tra i proclami all’unità nazionale, potrebbe avviare una pratica di fallimento concordato.Decisivi, comunque vada, saranno quei 500mila barili di greggio al giorno che, prima dell’instaurazione del Califfato, Kirkuk pompava nell’oleodotto che, attraversando Mosul e Zakho, giunge al porto turco di Gihan. Kirkuk, da sempre contesa fra la questione curda e il peso strategico di essere stata almeno fino agli ’70 il primo polo estrattivo iracheno. Li chiamano gli “arabi 10mila dinari” quelli che Saddam, a decine di migliaia, aveva finanziato per trasferirsi nel distretto di Kirkuk, a tutti costi da sottrarre, anche demograficamente, all’egemonia curda. Molti, dopo il 2003, se ne sono andati. Ma da due mesi – «siamo rimasti sorpresi anche noi» – sono comparse le bandere nere dell’Is.In bilico tra Erbil e Baghdad, galleggiando su un lago di petrolio che potrebbe incendiarsi: i campi di Amrin e Igel sono ora nelle mano dell’Isis, come il 30 per cento del distretto. Le pressioni internazionali su Hamadi chiedono di preservare l’unità nazionale, ma «noi vogliamo un referendum che approvi i confini del 9 giugno», spiega l’ex governatore seduto nel suo studio da avvocato. «Abadi all’inizio cercherà di accattivarsi il favore di tutti, curdi compresi. Ma il Dawa, il suo partito, non accetterà mai di perdere la città e i suoi pozzi», replica sicuro Abdul Raqib. È uno dei maggiori storici curdi: «Nel 2001 boicottai un convegno a Londra del Dawa (il partito di Maliki e Abadi) che sosteneva già questo».Ma qualcosa, forse, si muove. Aziz del Goran, divenuto il secondo partito nel Parlamento curdo, parla di un “semaforo verde” a Usa e Ue. «Noi abbiamo sempre sostenuto la presenza statunitense. A Usa e Ue serve una base contro Teheran». Il meuzzin, dalla moschea dell’imam Qasam, intona la preghiera della sera. Gli unici a non fare festa a Kirkuk sono stati i peshmerga: «Ieri hanno ucciso due capi partigiani».