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LA CRISI IN MEDIORIENTE. Israele, la paura e la solitudine

Federica Zoja venerdì 16 novembre 2012
Un anno fa in Israele gli indignati invadevano le principali piazze del Paese per protestare contro promesse fatte e mai mantenute dal governo di Benjamin Netanyahu. In particolare, lo scontento riguardava il cosiddetto social housing, l’insieme delle misure messe in atto dallo Stato per soddisfare il diritto di ogni cittadino a un alloggio dignitoso. Più in generale, gli israeliani, giovani e non, protestavano per la cattiva distribuzione delle ricchezze in un Paese a elevato tasso di crescita (più 4,7 per cento nel 2011) e per la conseguente polarizzazione della società. Impressionanti i numeri di quelle manifestazioni: un milione di persone su una popolazione di otto.Ora che, invece, i motori economici stanno rallentando (il tasso di crescita è sceso al più 3,5%) e che la disoccupazione morde (in crescita rapida, dal 5,4% di gennaio al 7 di settembre), paradossalmente l’indignazione è rientrata.Per i sociologi, tuttavia, è solo questione di tempo. Fanno riflettere alcuni episodi estivi sintomo di profondo disagio: proprio come in Tunisia, nel dicembre del 2010, anche in Israele alcuni cittadini si sono dati fuoco in segno di protesta per la mancanza di lavoro e prospettive. Manifestazioni, contenute, si tengono periodicamente nella periferia della capitale e nelle città satelliti. Anche l’insofferenza dell’opinione pubblica nei confronti degli ultra-ortodossi è ai massimi termini: l’abolizione della legge sull’esenzione dei religiosi dalla leva (legge Tal) ha infiammato il dibattito, spaccando governo e società. L’intolleranza colpisce anche i cittadini israeliani arabi: a Tel Aviv, un adolescente è stato aggredito da coetanei ebrei per il semplice fatto di avere tratti arabi. L’esecutivo è accusato da più parti di non ascoltare i disagi brucianti sotto la cenere.A spiegare l’impennata dei consensi per la destra conservatrice, sostengono gli analisti, basta una parola: paura. Dell’atomica iraniana, che potrebbe essere ultimata per l’estate 2013. Della crisi siriana, che potrebbe tracimare oltre confine. E allora, inevitabilmente, la campagna elettorale si giocherà sulla questione sicurezza, con l’incubo dell’attentato all’autobus israeliano in Bulgaria sotto gli occhi di tutti (Burgas, 18 luglio). E la nuova, preoccupante escalation sul confine con Gaza di questi giorni, che ieri ha toccato il suo picco, con tre vittime israeliane.Se, invece, il nodo economico-sociale, cavallo di battaglia dei laburisti, dovesse chiudere lo stomaco agli elettori, potrebbero esserci – moderate – sorprese, con Kadima sorpassata a sinistra, ma sempre la destra vincente.Per Netanyahu, il terzo mandato non sarebbe comunque tutto rose e viole: coeso internamente su posizioni conservatrici, ancora vitale sul piano economico, il Paese è isolato nel quadrante mediorientale e sul piano internazionale. Non a caso, prima dello scoppio della rivolta contro Bashar Assad nel marzo del 2011, lo stesso Netanyahu era a un passo dal concedere le alture del Golan alla Siria per raffreddare almeno un fronte. Ora la Siria del futuro fa paura, potrebbe simpatizzare per Hamas, sempre più aggressivo. L’alleanza con la Turchia è ibernata dall’estate del 2010 (crisi della nave «Mavi Marmara»). Per non parlare delle relazioni con i nuovi inquilini del Cairo: se, da un lato, la collaborazione con le forze egiziane sta dando buoni frutti nella bonifica della penisola del Sinai da cellule jihadiste, dall’altro è probabile una revisione del trattato di pace del 1979. E la reazione al raid su Gaza ha mostrato in queste ore che i rapporti con il governo Morsi possono ulteriormente peggiorare.Oggi gli israeliani sono (forse) più sicuri di prima a casa propria – con le aspirazioni palestinesi coperte dalle rivoluzioni arabe –, ma le fondamenta sociali scricchiolano. E le campagne militari non basteranno a farle tacere.