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LA DIFFICILE TRANSIZIONE. Iraq, le truppe Usa sulla strada di casa

Luca Miele venerdì 20 agosto 2010
Il soldato Clinton J. Clemens aveva 18 anni quando percorse la stessa strada, nel settembre del 2003. «Ero spaventato da morire – racconta –. Attraversammo la frontiera e 15 minuti dopo ci piovevano addosso i primi colpi». A sette anni di distanza – con le vittime tra i soldati Usa schizzate a quota 4.400, con i miliardi di dollari per rimettere in piedi l’esercito iracheno saliti a venti e un Paese ancora alle prese con un’interminabile crisi politica – Clinton J. Clemens corre lungo la stessa strada. Ma nella direzione opposta. Via dall’Iraq. Con 13 giorni di anticipo sulla scadenza prevista (il 31 agosto) gli Stati Uniti hanno ritirato, nella notte tra mercoledì e giovedì, l’ultima brigata da combattimento. Nel Paese sono rimasti, per ora, 56mila soldati. Le truppe rimaste continueranno le operazioni fino al primo settembre quando resteranno in 50mila con compiti esclusivi di «appoggio e addestramento» dei militari iracheni. Entro il 31 dicembre 2011 – secondo il calendario approvato da Bush e fatto proprio da Barack Obama – tutti i militari, tranne qualche decina, avranno abbandonato il Paese. «Non è la fine della guerra», ha subito frenato Geoff Morell, portavoce del Pentagono, che ha messo in guardia dal considerare la fine della «missione di combattimento». Corretta anche giornalista della Nbc “embended” (aggregata alla IV brigata Stryker) aveva dato per completato il ritiro delle truppe Usa. Ma il progressivo disimpegno dell’esercito americano non lascerò un vuoto. Per sostituire i militari gli Stati Uniti lasceranno un «piccolo esercito» di contractor civili che prenderanno il loro posto – a partire dall’ottobre del 2011 – tanto nell’addestramento della polizia irachena, quanto nella protezione dei suoi campi fortificati e delle ambasciate. Lo ha rivelato il New York Times: il Dipartimento di Stato assumerà il controllo del personale civile entro l’ottobre del 2011 e il numero dei contractor sarà più che raddoppiato, passando a circa 7mila uomini.Questi ultimi, secondo il quotidiano, avranno il compito di «proteggere i civili in un Paese che ospita ancora degli insorti. Posti alla difesa di cinque complessi fortificati in tutto il Paese, i contractor della sicurezza impiegheranno radar per avvistare attacchi con razzi, scoveranno gli ordigni artigianali lungo le strade, faranno volare droni di ricognizione e potranno anche mettere insieme piccole unità di pronta reazione per aiutare i civili in difficoltà». Senza militari sul posto, per evitare tensioni, «sarà compito dei diplomatici Usa in due avamposti dal costo di 100 milioni di dollari scongiurare potenziali scontri fra l’esercito iracheno e i combattenti peshmerga curdi». Il giornale, citando fonti anonime della Casa Bianca, spiega che saranno almeno 2.400 le persone che lavoreranno all’ambasciata e presso altre sedi diplomatiche. Scettico monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad sulle reali possibilità del Paese di rinascere: «È molto difficile vivere in un luogo dove non c’è la legge, dove non c’è il governo. L’Iraq è senza un governo, è senza legge. E come si può vivere in un posto così? Bisogna avere prima di tutto un governo stabile, perché adesso i terroristi vanno e vengono come vogliono». Nel caldo rovente dei loro blindati – la cabina di guida si chiama “inferno” perché si trova sopra il motore – i soldati americani non trattengono il loro entusiasmo. «È la parola fine su sette anni di guerra», dice il colonnello Mark Bieger.