Mondo

EMERGENZA UMANITARIA. «Tra la gente che soffre, senza distinzioni»

Lucia Capuzzi sabato 28 agosto 2010
Nascosta tra le montagne, la città di Quetta – al confine tra Pakistan e Afghanistan – è scampata alle terribili inondazioni che ormai hanno straziato un quinto del Paese. Qui, però, sono arrivati in massa sfollati dal Sindh, dallo Swat, dal Baluchistan e dalle altre regioni martoriate. Circa le 50mila famiglie, oltre 500mila persone. A dare assistenza a tanti di loro è il missionario salesiano don Peter Zago, padovano di nascita e “asiatico” d’adozione. Ha lasciato l’Italia a 21 anni e, da allora, ha peregrinato per il Continente: India, Indonesia, Filippine e, ora,da 12 anni, il Pakistan. Un periodo segnato da momenti difficili. «Mai, però, come questo», racconta il missionario. «Si vedono anziani gridare, col corpo sommerso dall’acqua e le mani sollevate verso il cielo; bambini che implorano aiuto... Nel Nord, ci sono 2mila villaggi ancora isolati. Non riescono a raggiungerli con gli elicotteri a causa del maltempo... E, poi, c’è il rischio di epidemie».Alcune Ong hanno denunciato casi di colera. Ma le autorità non confermano...I giornali locali parlano di centinaia di malati di colera nel Nord Ovest, vicino a Peshawar. Molti sono stati abbandonati dalle famiglie che temono il contagio. E sono morti soli, senza che nessuno si prendesse cura di loro. È terribile...Voi che tipo di assistenza offrite?Distribuiamo cibo, medicinali, teli per ripararsi. Ci siamo organizzati in modo da raggiungere 500 famiglie alla settimana, per un totale di 1.500. O almeno questa era la cifra che avevamo previsto all’inizio. Ora, subissati dalle implorazioni di aiuto, abbiamo deciso di duplicare o triplicare i beneficiari.Avete difficoltà nel svolgere la vostra missione?Il contesto generale non è facile. Le prime volte che siamo andati negli accampamenti siamo stati assaliti. Abbiamo dovuto barricarci dentro l’auto. La gente è disperata e esasperata. Poi, pian piano, hanno capito che eravamo lì per loro. Ora ci aspettano e ci accolgono senza problemi. Anzi, spesso le persone ci abbracciano e ci chiamano “fratelli”. È una bella prova di amicizia da parte di musulmani.Ha notizie di discriminazioni nei confronti di cristiani e indù da parte di funzionari vicini all’integralismo islamico o da Ong radicali?Le discriminazioni nei confronti delle minoranze religiose in Pakistan sono una triste consuetudine. Ben prima delle alluvioni. Per trovare un posto di lavoro o anche solo per entrare in ospedale, i cristiani devo avere l’appoggio di un musulmano. Questa situazione si riflette pure nella distribuzione degli aiuti. Tanti ci raccontano di sfollati cristiani abbandonati, senza che nessuno se ne curi.Ha paura per le recenti minacce dei taleban?Sono abituato ai taleban. Siamo stati anche attaccati da un commando estremista lo scorso 8 febbraio. Ma non ci arrendiamo. Noi salesiani abbiamo qui a Quetta una scuola dove mille bambini di tutte le confessioni religiose – cattolici, protestanti, musulmani – studiano insieme. Senza contrasti. Convivere è possibile, dunque. Noi cerchiamo di dimostrarlo ogni giorno, col nostro lavoro. A fianco di chi ha bisogno.Nascosta tra le montagne, la città di Quetta – al confine tra Pakistan e Afghanistan – è scampata alle terribili inondazioni che ormai hanno straziato un quinto del Paese. Qui, però, sono arrivati in massa sfollati dal Sindh, dallo Swat, dal Baluchistan e dalle altre regioni martoriate. Circa le 50mila famiglie, oltre 500mila persone. A dare assistenza a tanti di loro è il missionario salesiano don Peter Zago, padovano di nascita e “asiatico” d’adozione. Ha lasciato l’Italia a 21 anni e, da allora, ha peregrinato per il Continente: India, Indonesia, Filippine e, ora,da 12 anni, il Pakistan. Un periodo segnato da momenti difficili. «Mai, però, come questo», racconta il missionario. «Si vedono anziani gridare, col corpo sommerso dall’acqua e le mani sollevate verso il cielo; bambini che implorano aiuto... Nel Nord, ci sono 2mila villaggi ancora isolati. Non riescono a raggiungerli con gli elicotteri a causa del maltempo... E, poi, c’è il rischio di epidemie».Alcune Ong hanno denunciato casi di colera. Ma le autorità non confermano...I giornali locali parlano di centinaia di malati di colera nel Nord Ovest, vicino a Peshawar. Molti sono stati abbandonati dalle famiglie che temono il contagio. E sono morti soli, senza che nessuno si prendesse cura di loro. È terribile...Voi che tipo di assistenza offrite?Distribuiamo cibo, medicinali, teli per ripararsi. Ci siamo organizzati in modo da raggiungere 500 famiglie alla settimana, per un totale di 1.500. O almeno questa era la cifra che avevamo previsto all’inizio. Ora, subissati dalle implorazioni di aiuto, abbiamo deciso di duplicare o triplicare i beneficiari.Avete difficoltà nel svolgere la vostra missione?Il contesto generale non è facile. Le prime volte che siamo andati negli accampamenti siamo stati assaliti. Abbiamo dovuto barricarci dentro l’auto. La gente è disperata e esasperata. Poi, pian piano, hanno capito che eravamo lì per loro. Ora ci aspettano e ci accolgono senza problemi. Anzi, spesso le persone ci abbracciano e ci chiamano “fratelli”. È una bella prova di amicizia da parte di musulmani.Ha notizie di discriminazioni nei confronti di cristiani e indù da parte di funzionari vicini all’integralismo islamico o da Ong radicali?Le discriminazioni nei confronti delle minoranze religiose in Pakistan sono una triste consuetudine. Ben prima delle alluvioni. Per trovare un posto di lavoro o anche solo per entrare in ospedale, i cristiani devo avere l’appoggio di un musulmano. Questa situazione si riflette pure nella distribuzione degli aiuti. Tanti ci raccontano di sfollati cristiani abbandonati, senza che nessuno se ne curi.Ha paura per le recenti minacce dei taleban?Sono abituato ai taleban. Siamo stati anche attaccati da un commando estremista lo scorso 8 febbraio. Ma non ci arrendiamo. Noi salesiani abbiamo qui a Quetta una scuola dove mille bambini di tutte le confessioni religiose – cattolici, protestanti, musulmani – studiano insieme. Senza contrasti. Convivere è possibile, dunque. Noi cerchiamo di dimostrarlo ogni giorno, col nostro lavoro. A fianco di chi ha bisogno.