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L'intervista. La Nobel Ebadi: «Il mio Iran rischia di diventare il nuovo Venezuela»

Francesca Ghirardelli sabato 22 settembre 2018

La Nobel Shirin Ebadi (a sinistra) nell’incontro a Bergamo (foto di Clara Mammana)

Dentro i confini dell’Iran, e non fuori, guarda Shirin Ebadi, per trovare i responsabili della grave crisi economica che vive l’Iran in questi mesi: avvocato e attivista per i diritti umani, Premio Nobel per la Pace nel 2003, questa instancabile iraniana che viaggia dieci mesi all’anno per denunciare la violazione dei diritti umani nel suo Paese punta il dito contro i propri governanti, prima di prendersela con le sanzioni di Donald Trump.
«Le scelte sbagliate, sia economiche che politiche, di chi governa in Iran, la corruzione che si aggrava e il sostegno economico da tempo garantito a gruppi armati esterni, questi sono i motivi della crisi» spiega, prima di intervenire al festival “Molte fedi sotto lo stesso cielo” in corso in questi giorni a Bergamo. «Sono anni che l’Iran paga tutte le spese degli Hezbollah libanesi e ora anche dei ribelli Houthi yemeniti. Abbiamo speso molto denaro nella guerra in Siria e in Iraq, fondi che avrebbero dovuto essere convogliati al miglioramento delle condizioni di vita del mio popolo e che, invece, hanno creato ulteriore povertà nel Paese e nella regione. Uno degli slogan delle ultime manifestazioni, infatti, è: “Non spendete soldi in Siria. Usateli per noi“». Quest’anno il rial, la valuta iraniana, ha perduto due terzi del proprio valore rispetto al dollaro, i prezzi dei beni d’importazione crescono, il tasso di disoccupazione aumenta. Il ripristino, ad agosto, di una prima serie di sanzioni economiche contro l’Iran, dopo il ritiro degli Usa dall’Accordo sul nucleare, sta già producendo effetti a valanga. Si tratta delle cosiddette «sanzioni secondarie», che colpiscono soggetti non statunitensi che intrattengono relazioni commerciali con l’Iran.
Grandi imprese come Total, Peugeot e Siemens stanno lasciando il Paese. Dovrà fare i conti con le nuove misure anche l’Italia, nel 2017 primo partner commerciale dell’Iran tra i membri Ue. «Un sabotaggio», così la guida suprema Khamenei ha definito la strategia degli Usa. Ma Shirin Ebadi non è d’accordo: «Certo, le sanzioni peggiorano la situazione, però i motivi interni influiscono di più sulle cattive condizioni economiche del Paese».
La crisi diventa, intanto, anche politica: il Parlamento ha licenziato i ministri delle Finanze e del Lavoro, mentre lo stesso presidente Rohani è stato chiamato a rispondere dei pesanti insuccessi economici. Per molti parlamentari le sue spiegazioni «non sono state convincenti».
«Può essere che la guida suprema pensi a sostituirlo. Oppure no», spiega Ebadi. «Comunque, per la Costituzione, tutti i poteri sono nella mani di Khamenei. L’Occidente sbagliava a pensare che Rohani potesse cambiare qualcosa. Se chiedete a un iraniano cosa pensa di lui, vi dirà che è solo l’assistente di qualcun altro. La sua debolezza ora non significa nulla».
E torna al cuore del problema: «Il punto è che se l’Iran non modifica le proprie politiche, seguiremo il destino del Venezuela. Un Paese che ha petrolio, che dovrebbe essere molto ricco, ma dove manca il pane. Un Paese da cui due milioni di abitanti se ne sono andati. È quasi un anno che gli iraniani protestano per questo e nessuno li ascolta».
Lo scorso gennaio, infatti, manifestazioni di protesta avevano attraversato un’ottantina di città: «Oggi la mobilitazione ha carattere più locale, ma prosegue, con rivendicazioni economiche. Si ricordi, però, che i diritti economici sono parte integrante dei diritti umani e, sì, possono dare la sponda a rivendicazioni politiche».
Dopo tanti anni di battaglie, dopo quasi dieci di esilio e dopo una lunga lista di sacrifici personali e familiari, le domandiamo dove trovi l’energia per continuare la sua azione di denuncia: «Quando credi davvero nello scopo che ti sei dato nella vita, accetti le difficoltà e le superi. Non bisogna mai dimenticare che ogni cosa ha un prezzo. Anche la democrazia ce l’ha e bisogna pagarlo».