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Guatemala. Il Niño secca le campagne, migliaia in fuga verso gli Stati Uniti

Lucia Capuzzi, inviata a Zacapa (Guatemala) domenica 8 dicembre 2019

Migranti alla frontiera tra Guatemala e Messico (Ansa)

Mucchietti di panni sporchi giacciono alla rinfusa sulla roccia piatta, la più grande. Fra i ciottoli spuntano le bacinelle, ancora vuote. Là verranno accumulati vestiti e biancheria puliti. Ma Ismelda questa mattina è in ritardo. «Mi hanno chiesto di arrotolare più sigari, così sono arrivata solo ora», racconta senza smettere di fregare una maglia rosa con un minuscolo pezzo di sapone. «Con quel che costa devo farmelo bastare », dice, con la schiena piegata fin quasi alle caviglie dove le arriva l’acqua del Riachuelo. A guardarlo, con il fondo pietroso in bella mostra, si fa fatica a credere che dieci anni fa fosse un fiume imponente. Allora, le cisterne delle cento famiglie di Rio Arriba, a una mezz’ora di strada sterrata da Zacapa, erano piene, alla fine della stagione delle piogge. E Ismelda non doveva fare il bucato al fiume.

«Era prima… Quando la siccità non bruciava il raccolto di mais e fagioli, mio marito non faceva il muratore a giornata e io non lavoravo a cottimo per il tabacchificio. Adesso non cresce più niente. Seminare è uno spreco. Mio cognato è partito per gli Stati Uniti quindici giorni fa. È ancora in viaggio, non sappiamo niente. E se non riesce ad arrivare “dall’altro lato” perderemo la terra: l’abbiamo ipotecata per trovare il denaro per il viaggio. Non avevamo altra scelta: non si sopravvive senza un familiare nel Norte». Ismelda non sa bene che cosa significhi «cambiamento climatico».

Né che, in questi giorni, a Madrid, i governi mondiali stanno discutendo su come contrastarlo. Sa solo che, a partire dal 2010, le precipitazioni hanno smesso di cadere, puntuali, da maggio a settembre, con un intermezzo «secco» di 15 giorni a metà luglio. La cosiddetta «canicola» si è dilatata a tre, quattro, cinque settimane.

Mentre, nel resto della stagione umida, gli intervalli tra una pioggia e l’altra sono diventati di 25 giorni. Risultato: quest’anno è andato perso oltre il 70 per cento della produzione di mais e fagioli – le due colture base – del Corredor Seco del Guatemala. Un’ampia fascia che taglia in diagonale il Paese, da Nord a Sud, e prosegue fino a Panama, attraversando il Centro America, per un totale di 1.600 chilometri. Si tratta, secondo la Fao e il Programma alimentare mondiale (Pam), di una delle regioni del pianeta più “sensibili” al riscaldamento globale. E dove il suo impatto si fa più devastante, dato che il 60 per cento dei 10,5 milioni di abitanti pratica un’agricoltura di sussistenza. Di questi – hanno avvertito di recente le due agenzie Onu – almeno 1,5 milioni sono alla fame. Oltre un terzo sono guatemaltechi. +

Siccità a Cerro Grande - Capuzzi

«Con una serie di misure a basso costo, come piccole dighe per conservare l’acqua piovana, questi potrebbero difendersi dal cambiamento climatico. Ma i governi non formano né investono», afferma Gerardo Paiz del collettivo Madre Selva, specializzato nell’educazione agricola. La culla della civiltà Maya è strutturalmente vulnerabile: da decenni il suo tasso di malnutrizione cronica è il primo dell’America Latina e il sesto del mondo. «Un bimbo su due la soffre a livello nazionale, nel Corredor Seco quasi sette su dieci», spiega Iván Aguilar, coordinatore di Oxfam Guatemala, che ha realizzato un capillare monitoraggio delle condizioni umanitarie nella regione. In base ai dati raccolti, là, la malnutrizione è aumentata di 6,9 punti percentuali dal 2016, raggiungendo quota 67,8 per cento. Quest’anno – afferma un rapporto del Catholic relief service e di Usaid – il raccolto ha dato cibo ai contadini per meno di due mesi. Non sorprende che chi è proprietario del terreno – non tantissimi – lo offra in garanzia ai “prestamistas” (gli usurai locali) per pagare un “coyote” (trafficante) e raggiungere gli Usa. Dal 2014, quando la siccità è diventata una costante, anche il Corredor Seco, prima relativamente sedentario, s’è trasformato in una zona d’esodo.

20 milioni
le persone che ogni anno sono migrano dal Sud del pianeta per catastrofi naturali provocate dal clima

5 volte
è stato l’aumento dei profughi ambientali negli ultimi dieci anni con una perdita del 2% di Pil dei Paesi poveri

54%
è la quota dei danni climatici che colpiscono il Sud del pianeta di cui sono responsabili Ue e Usa

«Non è il sogno americano. È l’incubo della fame», dice Edgar di Loma del Viento, comunità di 130 famiglie nel municipio di Zacapa. «Tre ragazzi sono appena andati via. Hanno fatto bene. Ho seminato 60 metri quadrati di mais. Sa quanto ho raccolto? Niente». Dell’oltre un milione di migranti irregolari centroamericani fermati dalla polizia di frontiera al confine tra Messico e Stati Uniti nell’ultimo anno fiscale, 437mila provenivano dal Guatemala, più di cinque volte rispetto al 2016. Di nazionalità guatemalteca sono oltre 93mila bimbi soli bloccati alla frontiera Usa tra 2013 e 2018. Fuggono della violenza che dilania la nazione e dell’emarginazione, certo. Ma anche del riscaldamento globale, o meglio della fame e della miseria che questo causa sulla popolazione più fragile. Secondo il Pam, il 18 per cento dei migranti che hanno lasciato il Guatemala negli ultimi quattro anni, l’ha fatto per cause legate al clima. La categoria dei 'rifugiati ambientali', però, non esiste a livello internazionale.

I profughi del Corredor Seco non godono, dunque, di nessuna facilitazione per entrare e restare negli Usa, tra i principali responsabili della produzione di emissioni e della crisi climatica. «Andare vorrei andare, anche se il viaggio è pericoloso. Ma non abbiamo terra da impegnare. La affittiamo. Mio marito lavora come bracciante nella coltivazione dei meloni. All’azienda straniera l’acqua non manca anche se il fiume Punilá è secco, perché hanno il sistema di irrigazione. Gli impieghi sono temporanei: 4-5 mesi. Poi proverà a trovare qualcosa nell’edilizia a Zacapa», afferma Ethel, di Cerro Grande, una dei tanti «prigionieri del cambiamento climatico», troppo poveri per migrare. Sotto il tetto di lamiera della sua capanna di assi di legno di Remolinos, comunità alla periferia di Teculután, Erika distribuisce una tortilla di mais ai tre bimbi. Un po’ di sale è il condimento dell’unico pasto della giornata. «Gli Usa? E dove li trovo i soldi? Posso partire solo per il campo santo».