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Verso Firenze 2015 con l'entusiasmo dei missionari. Quinto convegno ecclesiale: impariamo dai dayak

Piero Gheddo mercoledì 30 ottobre 2013
Un testo lungo, chiaro e ben articolato, con una buona inquadratura teologica e una sintesi storica dell’umanesimo cristiano. È l’Invito al quinto Convegno ecclesiale che si celebrerà a Firenze tra due anni. Mi pare però che manchi un po’ quella proiezione verso l’esterno della quale da almeno da trent’anni scrivono e dicono i vescovi italiani e oggi è al centro della predicazione di papa Francesco. Nel 1985 il cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino e presidente della Cei, diceva al Convegno ecclesiale di Loreto (ero un delegato della diocesi di Milano): «Il popolo italiano deve essere rievangelizzato con spirito e metodi missionari, bisogna passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria». Nella Nota pastorale della Cei (marzo 2007) dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona si legge: «Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti... Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione».Credo che il punto, oggi più che mai, sia di non perdere quell’intenzione e di non rimanere sulle dichiarazioni di principio, tante volte ripetute. Occorre il salto di qualità che porti le diocesi e parrocchie italiane «da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria». Senza dubbio nascono in Italia numerose e nuove esperienze di evangelizzazione "missionaria", ma poi sacerdoti e operatori pastorali seguono faticosamente le vie tradizionali, spesso travolti da troppe urgenze ed emergenze per poter fare qualcosa di nuovo, di diverso. La grande domanda che tutti ci facciamo è questa: come essere e come agire, noi sacerdoti e operatori pastorali, per rendere missionaria la Chiesa italiana? Cosa significa «abbiamo molto da imparare alla scuola della missione»? Senza condannare nessuno, e senza pessimismi, ciascun credente deve capire che l’Italia non si rievangelizza se tutti noi credenti non ci impegniamo a ritornare a Cristo, il cui amore ci rende testimoni e missionari. Nel mondo non cristiano è questo che accade: i nuovi battezzati, in genere, hanno l’entusiasmo della fede e diventano spontaneamente missionari.Nel 2004 ho visitato tre diocesi su sette del Borneo malese, dove si registrano conversioni in massa di tribali dayak. L’arcidiocesi di Kuching aveva 150 mila cattolici (oggi 180 mila) con 25 preti (oggi 31). La parrocchia di Serian 36 mila cattolici per tre preti, con 80 cappelle da visitare. Il parroco James Meehan dice che ogni anno ha circa 500 battesimi di adulti. Ho chiesto come fa a prepararli. Risposta: «Fanno tutto i catechisti e i laici dei vari movimenti, in parrocchia ne abbiamo una decina». Jong Chung, parroco di Bunan Gega, ha 300 battesimi all’anno di adulti convertiti, con una cinquantina di cappelle da curare. Questa regione dei dayak, visitandola, pare che sia diventata tutta cattolica: quasi in ogni villaggio c’è una cappella. Il parroco mi dice: «Le persone scelgono il cristianesimo, non l’islam e quando incontrano Cristo sperimentano che cambia la loro vita personale, familiare e di villaggio. Loro stessi diffondono il Vangelo».Chiedo a monsignor William Sabang, vicario generale di Kuching e rettore del seminario, cosa insegnano i cattolici del Borneo a noi cristiani d’Italia. «Quando studiavo a Roma – dice – andavo da un sacerdote che aveva tre piccole parrocchie e si lamentava perché alla domenica doveva dire cinque Messe. Gli ho detto che a Kuching noi abbiamo preti che hanno otto-diecimila cattolici da assistere, dispersi in venti o trenta cappelle distanti l’una dall’altra e considerano normale dover celebrare quattro-cinque Messe o anche più. I nostri cristiani, essendo pochi i preti, fin dall’inizio si sono organizzati e provvedono a molte necessità delle loro comunità: riunioni di preghiera, catechesi, catecumenato, amministrazione, carità, costruzioni e riparazioni, ecc. S’è creata una tradizione, e i cattolici sanno che debbono dare il loro tempo alla Chiesa. In Italia a volte mi stupivo di come i credenti si lamentano della Chiesa, ma fanno poco per evangelizzare, non prendono iniziative, aspettano tutto dal parroco o dal vescovo». Concludo. Perché a Firenze 2015 non si discute su come trasmettere l’entusiasmo della fede che le missioni ci insegnano?