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Turchia. Erdogan e il boom economico «drogato» dal cemento, schiacciato dal terremoto

Giorgio Ferrari sabato 11 febbraio 2023

Il presidente turco Erdogan tra i terremotati

Asserragliato nel Büyük Saray, l’immane Gran Serraglio dalle oltre mille stanze che si è fatto costruire alle porte di Ankara a immagine della sua smisurata ambizione, Recep Tayyp Erdogan si sarà certamente domandato – anche solo per un fuggevole istante – come il sisma che ha sfigurato le provincie meridionali dell’Anatolia abbia avuto così facilmente ragione di quei condomini, di quei falansteri a dodici piani, di quelle fughe di torri tanto simili alle “vele” di Scampia che oggi giacciono nella polvere, prone e inginocchiate di fronte alla forza potente di una natura matrigna e senza riguardi.

Se lo sarà domandato e - supponiamo – si sarà anche dato una parziale risposta. Una risposta che viene da lontano, da quando nel 1998 Erdogan aveva smesso i panni da sindaco di Istanbul per fondare poco dopo quel Partito per la giustizia e lo sviluppo – l’Akp – grazie al quale la formazione di ispirazione islamica gli ha assicurato nel corso degli anni durante i quali ha liquidato il kemalismo e instaurato una repubblica presidenziale, è giunto fino a oggi, alla guida di un Paese in crisi ma alla vigilia di un’elezione che potrebbe garantirgli il monopolio a vita del potere.

In mezzo al guado, in mezzo alla lunga stagione in cui il suo potere personale ha progressivamente assottigliato le libertà civili colmando le carceri di giornalisti, magistrati, poliziotti, militari giudicati infidi e indegni del nuovo corso, c’è stato il boom economico, all’interno del quale si è gonfiato il boom edilizio. Già una quindicina di anni fa la Turchia cominciava a fare affari con chiunque bussasse alla sua porta, dall’Afghanistan dei taleban all’Iraq curdo, dai ricchi ayatollah iraniani ai fratelli-coltelli greci, fino alla stessa Israele, con una ricaduta sul potere d’acquisto delle famiglie e una crescita economica che rivaleggiava soltanto con quella cinese. E a beneficiarne non erano soltanto le città dell’élite post-kemalista come Istanbul, Ankara, Smirne, ma anche la piccola borghesia musulmana, sparpagliata nell'immensa Anatolia e fortissima nelle città di confine, come Adana, Antiochia, Diyarbakir.

Nel cuore di quel miracolo economico trovavano posto progetti faraonici come le due Trump Tower, il terzo ponte fra la parte europea e quella asiatica, il Kanal Istanbul (lo stretto alternativo al Bosforo che dovrebbe collegare il Mar Nero al Mar di Marmara con i suoi 43 chilometri di lunghezza, i 400 metri di larghezza, e i 25 di profondità), un avveniristico e scintillante aeroporto internazionale (77 milioni di metri quadrati, di cui 53mila destinati al più grande duty free del mondo, 42 chilometri di nastri per i bagagli, per una spesa complessiva di 29 miliardi di euro), e una metropolitana nuova fiammante. Accompagnati da un rigoglio edilizio che ha fatto la fortuna di una massa di imprenditori e contemporaneamente ha deturpato l’intero Paese sotto una colata di cemento.

In mezzo, in mezzo a quella marea montante di ricchezza e di affari si è insinuata la speculazione, la malversazione, l’incoscienza, l’incapacità criminale di affaristi che si sono trasformati in imprenditori edili innalzando fragili cattedrali con materiali scadenti e nessuna precauzione antisismica. Le si vede a occhio nudo, nelle tragiche immagini che giungono dai luoghi del sisma: sono i palazzi caduti sul fianco, a pochi metri dei quali ve ne sono altri che sono rimasti in piedi. Questi ultimi sono stati costruiti a norma, i primi invece no, nonostante una legge promulgata nel 2012 dopo il rovinoso terremoto del 1999; una legge che impone criteri antisismici severissimi. Più che sul mancato sogno di restaurazione neo-ottomana, Erdogan ha costruito gran parte del proprio consenso elettorale su questa ordalia di cemento e sullo scandaloso condono che ne è seguito. Un consenso che ha visto come destinatari privilegiati, i Beyaz Türkler, quei “turchi bianchi” rappresentati dalla classe borghese colta e cosmopolita, che ha garantito al sultano una longevità politica inusuale, alla quale si è affiancato il plauso della grande massa più conservatrice e religiosa che si raduna nell’Akp.

Ma l’inflazione, incrementata da una politica di tassi che visto cambiare cinque governatori della banca centrale in otto anni, ha divorato buona parte della fiducia accordata a Erdogan. Ai redditi erosi oltre che dal Covid da un tasso che ha superato in alcuni mesi il cento per cento, l’autocrate ha opposto una crescita forzata e una svalutazione della lira che se da un lato ha incrementato del 33% le esportazioni dall’altro ha fatto sì che all’inizio del 2023 il rapporto tra euro e lira sia diventato quasi sette volte quello del 2014. Ora si è aggiunto il terremoto. Fin troppe insidie, sulla strada della rielezione di Erdogan. Meglio oscurare Twitter, per precauzione.