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Analisi. L'Iran e le proteste: il sacrificio dei giovani e la vergogna dell'Occidente

Antonella Mariani venerdì 15 settembre 2023

Una manifestazione di sostegno alla protesta iraniana a Los Angeles

«Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano. Mettete una canzone allegra». Sono ormai storia le ultime parole di Majidreza Rahnavard, ucciso il 12 dicembre 2022 per aver preso parte alle manifestazioni seguite alla morte in detenzione di Mahsa Amini. Difficile eseguire le sue volontà, nell’Iran della repressione totale, a meno di affrontare tutti i rischi che la disobbedienza comporta. La tragica fine del 23enne Majidreza, impiccato al braccio di una gru nella piazza principale della cittadina di Mashhad, ci ricorda che non sono solo le ragazze a morire e a soffrire, ma anche i ragazzi che si sono messi al loro fianco per la stessa battaglia di civiltà.

È la “meglio gioventù” iraniana, come l’ha definita un recente report di Amnesty, a urlare “Donna, vita, libertà” ormai da 12 mesi. Nell’anno trascorso dalla morte di Mahsa abbiamo assistito a manifestazioni quasi quotidiane, sedate dagli agenti della repressione. Abbiamo visto esplodere e poi pian piano sfiorire campagne social diffuse in tutto il pianeta come il taglio di una ciocca davanti alle videocamere (erano stati proprio i capelli fuori posto a scatenare la violenza contro la giovane curda). Abbiamo letto report allarmati sulle migliaia di arresti arbitrari, sulle esecuzioni pubbliche, sulle violenze inflitte in carcere ai manifestanti, uomini e donne… L’opinione pubblica mondiale non ha dimenticato le ragazze e i ragazzi iraniani, non c’è stato un blackout informativo come è accaduto invece per le afghane, che da due anni sono state cancellate dalla scena pubblica nel loro Paese e le loro sofferenze, salvo rare eccezione tra le quali Avvenire, hanno avuto scarsissima eco.

Eppure. Eppure l’indignazione pubblica e la mobilitazione dei movimenti sociali e politici, pur assolutamente indispensabili per tenere accesa una luce sul dramma di un popolo, non è stata sufficiente. L’unico risultato raggiunto dal clamore mediatico, nel dicembre scorso, è la sospensione del seggio della Repubblica islamica dell’Iran nella Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne. Un risultato magro, quasi un contentino, e casomai ci sarebbe da chiedersi cosa ci facesse uno Stato nemico delle donne in una Commissione di tal fatta, se non fosse che a tutt’oggi l’Afghanistan ne è ancora membro.

Dunque, il sostegno che è mancato e manca, nella battaglia del popolo iraniano, è la volontà dei governi occidentali di far valere i cardini condivisi della nostra civiltà: l’uguaglianza e la pari dignità tra cittadini, la libertà di pensiero e di espressione, la giustizia... Valori alla base del vivere civile in casa nostra, però facoltativi laddove porta non il cuore bensì gli affari. Perché sostanzialmente è così; business as usual. Lo ha spiegato bene l’attivista iraniana Maryam Namazie nei giorni scorsi in un’intervista a Micromega: «Il business as usual è sempre contro le donne e a favore del profitto rispetto al benessere umano».

È sul cinismo dei governi occidentali – lo stesso che pesa come un macigno sulla storia recente, sul presente e ormai anche sul futuro del popolo afghano – che gli ayatollah di Teheran contano, vista la protervia con la quale da una parte sopportano entro certi limiti le proteste di piazza e dall’altra continuano a perseguitare le ragazze e i ragazzi.

Allora l’unica speranza che la morte di Mahsa Amini e degli altri, la sofferenza degli innumerevoli oppressi in prigione, picchiati e perseguitati, porti a un cambiamento nel granitico regime iraniano, risiede nel coraggio e nella tenacia di chi lotta, nella possibilità che emerga una leadership, nella resistenza e nel sacrificio, anche di sangue, della “meglio gioventù” di un intero Paese.

Sulla carta il regime è condannato dai numeri: il cambiamento è lento, ma appare inevitabile. Oggi i giovani costituiscono il 70 per cento della popolazione. Le ragazze sono il 60% delle matricole universitarie, il 70% nelle facoltà scientifiche. Per quanto tempo gli ayatollah ancora potranno arginare la protesta di una parte così consistente – donne e uomini, insieme – della propria gente? Il prezzo da pagare, lo vediamo, è altissimo. Per i Paesi occidentali è il prezzo della vergogna.