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Guerra per l'energia. Il vero «grande gioco» di Erdogan in Libia è il gas

Giorgio Ferrari venerdì 3 gennaio 2020

Il Parlamento turco vota il via libera all'intervento militare di Ankara in Libia

Una delle tecniche di base nei giochi di magia si chiama “misdirection” e consiste nel manipolare l’attenzione dello spettatore in direzione di un’azione-civetta per nascondere il trucco che in realtà si sta svolgendo sotto i suoi stessi occhi. Solo così il gioco di prestigio funziona.

Anche nel Mar Mediterraneo è in atto una clamorosa “misdirection”, anzi più d’una contemporaneamente, ma qui non si tratta di un banale gioco di carte o di un coniglio che fuoriesce dal cilindro, ma di un’emanazione di quel Great Game – sì, il “grande gioco”, come lo chiamò profeticamente nel 1834 l’esploratore-spia Arthur Conolly – che contrappose per tutto l’Ottocento l’impero russo e la corona britannica in un’immane corsa al controllo dell’Afghanistan e delle città carovaniere dell’Asia centrale dopo che il lento disfacimento dell’impero ottomano e i conseguenti appetiti di Caterina di Russia e poco dopo di Napoleone Bonaparte avevano reso chiaro a tutti che la posta in palio (l’India e l’accesso ai mari caldi) avrebbe garantito la supremazia mondiale a chi ne avesse avuto l’esclusiva.

Oggi il Great Game si è spostato a due passi da casa nostra, ma almeno due degli attori principali sono gli stessi, la Russia e la Turchia. E la “misdirection”? Avete indovinato, è la Libia, un non-Paese profondamente diviso e in balia di un conflitto civile fra i tanti clan tribali e di una guerra vera e propria fra il cireneo Khalifa Haftar e il tripolino Fayez al-Serraj, il primo sostenuto economicamente e politicamente da Egitto e Emirati Arabi e soprattutto da Mosca e il secondo ufficialmente riconosciuto dall’Onu e appoggiato dall’Unione Europea (con la Francia che però fa la fronda e flirta con Haftar) e soprattutto da Qatar e Turchia.

E proprio dal Parlamento di Ankara è arrivato il via libera chiesto da Erdogan all’invio di truppe a sostegno di al-Serraj, rimasto a secco di armi, uomini e iniziativa dopo che i contractor russi (i famigerati “omini verdi” ex spetznaz già visti in Crimea, in Ucraina, in Siria, in Africa) hanno affiancato l’esercito cirenaico nella morsa attorno alla capitale.

Appetiti territoriali, certo, ma cosa vogliono in realtà Turchia e Russia? Davvero Erdogan – che pure non ha mai nascosto il suo irredentismo anti-kemalista e filo-ottomano – ha nostalgia di quel protettorato che gli fu strappato nel 1912 dalla spedizione giolittiana del Regno d’Italia? E davvero Mosca, che negli anni d’oro del panarabismo nasseriano era di casa al Cairo ed ora grazie all’azzardo spregiudicato di Putin ha incassato la vantaggiosa cambiale delle basi aeronavali in Siria oltre che di Sebastopoli nel Mar Nero, mira ad annettersi la lontana provincia libica? No, la ragione è essenzialmente un’altra: il Great Game ha come premio in palio le risorse energetiche del Mare Nostrum.

Certamente la Libia ne fa parte (gli immensi giacimenti e lo sfruttamento dei terminali costieri fanno gola a tutti, italiani, francesi, inglesi, americani, non solo a russi e turchi), ma non è il bel suol d’amore lo scopo principale della contesa.

Per capirlo dobbiamo cercare di immaginare quello spicchio di Mediterraneo orientale come una mappa geografica sottomarina. Dove vediamo gomito a gomito il giacimento “Afrodite” al largo di Cipro (200 miliardi di metri cubi di gas naturale), o i giacimenti offshore israeliani “Leviathan”, “Karish” e “Tanin” o in prospettiva il progetto EastMed (siglato ieri dai ministri dell’Energia di Grecia, Israele e Cipro, presente il premier Netanyahu), che prevede la costruzione di un gasdotto da 6 miliardi di dollari che inizialmente dovrebbe trasportare 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalle acque israeliane e cipriote nell’isola greca di Creta, poi verso la terraferma greca e la rete europea attraverso l’Italia, in diretta concorrenza con il gasdotto russo-turco TurkStream (15 miliardi di metri cubi di gas naturale, che Putin e Erdogan firmeranno l’8 gennaio prossimo).

Grecia, Israele, Cipro; Mosca e Ankara; Parigi e Roma: ciascuno, fatte le debite differenze, partecipa al Great Game dell’energia. Anche l’Eni, che ha fatto accordi con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Oman, che l’anno scorso ha acquistato il 20% di Adnoc Refining, società di raffinazione di Abu Dhabi e che pure ha intralciato i piani espansivi di Ankara, che ha finito per mandare navi da guerra nello specchio di mare che l’ente di Stato italiano aveva in concessione al largo di Cipro in condivisione con i francesi di Total.

E se un giorno – si chiedono in parecchi – fossimo costretti a comprare gas libico da Erdogan? Proiettato nel breve futuro, questo Great Game sembra del tutto inutile: «Le fonti tradizionali – ha detto in un’intervista a Il Foglio l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi – sono destinate a decadere: prima il carbone, poi il petrolio e dal 2050 anche il gas».

E per quanto l’appuntamento di mezzo secolo non sia poi così lontano, la competizione – ma chiamiamola pure con il suo nome – è più che mai aperta nonostante sia una guerra vecchia, legata a risorse destinate fra qualche decennio ad essere superate da tecnologie ed energie rinnovabili, ma che continua a muovere interessi e forze enormi. E a rianimare il grande gioco di un tempo. Quello vero.