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AMERICA LATINA. Cocaina, i pirati dei Caraibi rapinano le navi dei narcos

Lucia Capuzzi lunedì 14 ottobre 2013
Si muove lenta, spingendo al minimo il motore. A bordo la tensione è palpabile. L’equipaggio si guarda intorno con circospezione, attento a ogni fruscio. I “pirati” possono sbucare da un momento all’altro. Anche se siamo ai Caraibi, non si tratta di un nuovo episodio della fortunata saga Disney. Il pericolo è reale. La lancia trasporta un carico “importante”: 520 chili di cocaina pura colombiana, per un valore di quasi 120 milioni di euro. Un bottino che fa gola a molti. Alla polizia, in primo luogo. Ma non è a quest’ultima che stanno pensando i narcos. I Cayos Vivorillo – una catena di isolotti semi-deserti, coperti di mangrovie e seminati di anfratti, di fronte alle coste tra Honduras e Nicaragua – sono quasi impossibili da controllare per le forze dell’ordine, scarse e mal equipaggiate. Il principale rischio qui sono i “tumbadores”, noti anche come i “nuovi pirati dei Caraibi”: gruppi di malviventi specializzati nei furti di droga ai trafficanti. I “ladri di coca” vivono alle spalle dei cartelli messicani (grandi organizzazioni per lo spaccio di droga): sono in grado di intercettare – affermano fonti di intelligence – il 20 per cento dei carichi marittimi. I “tumbadores” si appostano nei punti nevralgici del viaggio che, attraverso l’America Centrale, porta la droga dal produttore colombiano ai luoghi di consumo: Stati Uniti ed Europa. Il tratto costiero compreso tra Panama e Belize è ideale per gli “arrembaggi”: la debolezza degli Stati, l’elevata corruzione delle polizie locali, la violenza endemica rendono l’area particolarmente instabile. Il fenomeno – denunciato da varie fonti e confermato ora da un rapporto dell’Ufficio Onu contro la droga e il delitto – è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Man mano che si è intensificata la “rotta centramericana”: secondo gli esperti, ormai, l’80 per cento della coca sudamericana passa per questo corridoio. Del resto, con una concentrazione di oltre 100mila isole, i nascondigli non mancano. Tanto più che i controlli scarseggiano. Solo per citare un esempio, il Servizio aeronavale di Panama ha a disposizione otto basi navali, altrettanti elicotteri e 24 imbarcazioni per sorvegliare i 1.518 atolli disseminati lungo le proprie coste. Il governo ha più volte promesso l’installazione di 19 radar ma ancora non se n’è fatto nulla. Eppure, anche con questi limiti, da gennaio sono state sequestrate 14 tonnellate, meno del 10 per cento del flusso stimato.L’intenso traffico ha fatto proliferare i “tumbadores”: solo a Panana si contano tra le 40 e le 50 bande, afferma l’Onu mentre la polizia parla di 350. In Nicaragua – sostiene l’analista Roberto Orozco –, in un anno, le formazioni di pirati sono passate da 12 alle attuali 17. Mentre nel nord del Guatemala, l’altra base dei “bucanieri”, lo stesso presidente Otto Pérez Molina ha definito i “tumbadores”, una delle nuove minacce alla sicurezza. La loro azione, infatti, innalza il già elevato livello di violenza, innescando una catena senza fine di vendette. Il caso del Belize è emblematico: l’anno scorso ci sono stati 146 omicidi su un totale di 320mila abitanti, con un tasso di 44 ogni 100mila abitanti, il doppio del Messico. I “ladri di coca”, in genere, sono gruppi di ex trafficanti che conoscono perfettamente gli itinerari e i punti sensibili. Il lavoro non è particolarmente difficile. Al largo dell’America Centrale, le “narco-imbarcazioni” viaggiano in assetto leggero: un equipaggio di quattro uomini e non troppe armi per non appesantire il carico. Molto più spesso, inoltre, i “tumbadores” sono pagati dal cartello rivale per ostacolare il business del nemico. È il caso, ad esempio, dei guatemaltechi “leonenses”, alleati prima del cartello messicano del Golfo e poi di Sinaoloa, e pagati da questo per attaccare i carichi degli Zetas. Come la lancia di Cayos Vivorillo che, per inciso, non raggiungerà mai il Nord.