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LA DENUNCIA. Siria, i bimbi raccontano l'orrore «Rinchiusi nella scuola. Per torturarci»

mercoledì 26 settembre 2012
Hanno visto i propri genitori, fratelli e cugini uccisi nei modi più brutali. Sono stati incarcerati, torturati in modo «raccapricciante», vessati. Sono i bambini siriani fuggiti dal Paese che raccontano la guerra: il loro viaggio nell’orrore. Le testimonianze sono state raccolte da Save the Children, che le ha presentate ieri in occasione del dibattito all’Onu sulla Siria. «Ero a un funerale, poi un razzo ha fatto strage», racconta Hassan, 14 anni: «Siamo andati a tirare fuori i cadaveri. Ho trovato parti del corpo ammassate una sull’altra». Khalid, 15 anni, racconta invece di come è stato arrestato e detenuto per giorni con i suoi coetanei. «La cosa buffa è che per torturarci ci hanno rinchiuso nella nostra vecchia scuola. Per due giorni ci hanno costretto a stare in piedi, senza mangiare né bere. Penso fossimo in cento. Poi mi hanno preso e appeso al soffitto per i polsi e hanno iniziato a picchiarmi. Mi hanno spento le sigarette sul corpo: ecco, guardate i segni. Ad altri, invece, hanno ripetutamente inflitto scosse elettriche. In alcuni casi, hanno usato i bambini per avanzare nei villaggi, facendone degli scudi umani».Save the Children non specifica chi siano i torturatori, anche se cita i risultati della commissione Onu sui crimini di guerra in Siria che punta l’indice in particolare contro le milizie paramilitari filo-governative alauite, che secondo alcuni analisti stanno portando avanti una vera e propria pulizia etnica in Siria ai danni dei sunniti. Non mancano però episodi di crimini commessi dai ribelli, in alcuni casi contro i bambini, per lo più alauiti, la stessa setta religiosa del presidente Bashar al-Assad.di Susan DabbousSono piccoli, allegri, apatici o iperattivi. Sono poveri, ma per il momento hanno l’essenziale: una scuola, degli amici e la famiglia. Disegnano ciò che vedono e quello che hanno visto: soldati, carri armati e violenza. I corpi senza vita riversi a terra in grandi macchie di sangue. I colori che prevalgono sono il bianco, il verde e il nero, ovvero quelli della bandiera della Siria libera. Hanno un’età compresa tra i cinque e sedici anni i piccoli profughi di Arsal, villaggio montano libanese di 35.000 abitanti, che incontriamo nelle tre scuole pubbliche a ridosso del confine siriano. Attualmente solo 1.650 bambini siriani degli oltre 15.000 registrati dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Acnur, sono iscritti presso le scuole libanesi; mentre per i loro coetanei in Siria andare a lezione in alcune aree sarà impossibile: molte scuole sono occupate infatti dai soldati, in alter invece vivono decine di migliaia di sfollati. Così il Libano, che dà accoglienza a oltre 60.00 profughi siriani, si appresta ad assorbire, malvolentieri, piccoli provenienti dallo Stato vicino, con l’aiuto finanziario delle Nazioni Unite. Alcune Ong, invece, si stanno occupando di attività ludiche e psicosociali (per lo più giochi di ruolo). «La scuola è un luogo di aggregazione e distrazione dal clima pesante che vivono in casa», spiega Afaf Houjairy, psicologa di Terre des Hommes, mentre scorre disegni in cui i piccoli esternano le proprie emozioni. La maggior parte dei minori, «non presenta traumi profondi, bensì disturbi comportamentali come disorientamento, inappetenza, incubi e insonnia – prosegue Afaf –. Quando ci sono casi particolari consigliamo la terapia individuale. Evitiamo sempre di parlare della guerra durante le attività di gruppo». «Tra i disagi familiari più gravi che abbiamo riscontato tra i bambini siriani – aggiunge poi Noor Flisrt, psicologa dell’infanzia – ci sono quelli presentati dai figli di padri poligami. Uomini che in Siria prima della guerra riuscivano a mantenere due famiglie in case separate, ora riescono a malapena a pagare l’affitto di due stanze dove vivono con entrambe le mogli che litigano spesso tra loro. I bambini risentono ovviamente dell’ambiente ostile». I piccoli che versano in condizioni peggiori invece sono ricoverati negli ospedali di Tripoli, città nel Nord del Libano. Nella clinica riabilitativa al Zahara, al secondo piano di un ex orfanotrofio, si trova una famiglia di al Qusair, vicino Homs, sopravvissuta a uno dei recenti bombardamenti. Mustafà, tre anni, ha delle enormi cicatrici intorno a due ferite provocate da una granata. «Sulla spalla e sulla pancia», dice la madre, anche lei ferita mentre mostra i segni sul corpicino del figlio. Ma a provocare le lesioni ci spiega Sumaya Harmush, infermiera, «non è stata la granata in sé quanto le sue micidiali schegge».La signora ha altri tre figli: Marwa, un anno, riporta ferite superficiali alle gambe; Shames, sette anni, ha frammenti metallici ancora visibili sulla guancia e Fatme, quattro, ha subito l’amputazione dell’indice. Da quando è in ospedale non parla più e non gioca con i fratelli. «In tanti giorni che sono qui non hanno mai menzionato il padre», prosegue Sumaya. «Mio marito – conclude bruscamente la madre dei bambini – è morto mentre cercava di salvarci».