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Haiti. Nella Brooklyn senza grattacieli la vita vale meno dei vestiti che indossi

Lucia Capuzzi, inviata a Port-au-Prince sabato 11 marzo 2023

Un ragazzino assiste agli scontri di piazza vicino alla residenza del primo ministro a Port-au-Prince

Non è soltanto uno dei “pezzi” più cruenti della Terza guerra mondiale in cui siamo immersi. Haiti è “caso-scuola” del tipo di conflitti che caratterizzano la contemporaneità. «Nuove guerre», le ha definite la politologa Mary Kaldor. Una forma di violenza organizzata cresciuta nelle pieghe delle contraddizioni nell’attuale fase di globalizzazione e nei fallimenti dell’unipolarismo neoliberista. In essa si fanno labili i confini tra competizione di gruppi politici per la conquista del potere, criminalità e violazione su larga scala dei diritti umani. L’obiettivo dei vari attori è la conquista di pezzi di territorio da saccheggiare.

Accade ad Haiti come in buona parte dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Gli impatti, però, non restano confinati nel Sud del mondo. Dal business delle nuove guerre, traggono risorse attori esterni, statali e no, in grado di destabilizzare l’ordine globale. La tragedia haitiana, dunque, è cartina di tornasole e monito per l’evoluzione dello scenario bellico mondiale. Per questo, vederla, analizzarla e raccontarla non è solo dovere giornalistico e umano: è un esercizio fondamentale di lettura del presente.​

(Port-au-Prince). I ragazzi e l’unica ragazza sono giovanissimi e ben armati. Sventolano il Kalashinikov a mo’ di saluto, come fosse un cappello. Stanno tutto il giorno all’incrocio oltre il “Dèyè mi”, il muro che segna l’entrata a Cité Soleil, baraccopoli emblema di Haiti. E al territorio di Gabriel Jeanne-Pierre alias Ti Gabriel, capo incontrastato di Gpep, una delle oltre duecento bande che si spartiscono Port-au-Prince.

Stavolta, i suoi soldatini sono allegri: il fuoristrada in arrivo è sicuro. Al volante, vestito nell’inconfondibile tonaca bianca, c’è padre David Fontaine, tra i pochissimi ad avere “libero accesso”, almeno nelle scarse ore di tregua dai combattimenti. Il sacerdote francese ha trascorso nell’isola gli ultimi 14 anni di cui quattro a Cité Soleil, epicentro del «raccapricciante» – per impiegare la definizione dell’Onu – quanto dimenticato conflitto haitiano.

Padre David vive accanto alla sua chiesa, Santa Maria Stella del Mare, nel cuore di Brooklyn. Come l’omonimo newyorkese anche questo sotto-quartiere si affaccia sul litorale. Le somiglianze, però, finiscono qui. La spiaggia della Brooklyn di Cité Soleil è da sempre una discarica a causa della mancanza di un sistema di raccolta nazionale dei rifiuti. Ora, però, la spazzatura è ovunque. Per raggiungere le casupole – quattro assi di lamiera e un pezzo di compensato come porta –, gli abitanti scalano montagne di lattine, contenitori di plastica, sacchetti strappati. Ma questo è il meno.

Il pattume ha ostruito i canali di scolo. Il misto di acqua e liquami, pioggia dopo pioggia, è debordato, trasformando il paesaggio in una laguna bassa e fetida che i bambini guadano in infradito. «È così da otto mesi – dice padre David, mentre attiva il 4x4 per non restare impantanato nella melma –: la guerra impedisce ai mezzi di pulizia di lavorare».

La guerra. Quella guerra mai cominciata ufficialmente che tiene in ostaggio il Ventunesimo secolo haitiano. A partire dal 2018, però, c’è stata una escalation senza precedenti, fino all’anarchica barbarie attuale. Cinque anni di progressiva liquefazione dello Stato e delle sue istituzioni: il presidente e aspirante autocrate, Jovenal Moïse, è stato assassinato in una congiura di palazzo; il sostituto, il premier Ariel Henry, cerca affannosamente di governare con scarsa legittimità e infima autorità; con la scadenza, a gennaio, degli ultimi dieci senatori nel Paese non c’è più alcuna carica eletta.

Nel frattempo, da strumenti di manipolazione del consenso e controllo dell’opposizione nelle mani dei diversi potentati politici, le gang sono diventate l’arbitro della situazione, complici gli ingenti proventi di sequestri – in media quattro al giorno – e estorsioni. Secondo il rapporto-inchiesta della Commissione nazionale per i diritti umani (Rnddh), controllano l’80 per cento della capitale.

Per gli oltre quattro milioni di residenti, però, l’intera Port-au-Prince è un reticolato di frontiere invisibili quanto mobili tra i dominii dei vari gruppi armati. Sono loro a decidere chi e quando deve attraversarle. Ignoranza e dimenticanze sono punite con la morte. Nemmeno Henry osa sfidarle per raggiungere l’ufficio presidenziale, sui centralissimi Champs de mars.

Tutta la megalopoli è fronte.

Brooklyn, però, è sulla linea del fuoco. Incastrato tra il mare, la Route Soleil e la Route 2, il sobborgo è circondato da nemici: appena oltre la prima si estende Belekou, roccaforte di Iska Andrice, alleato di G9 e del suo potente capo, Jimmy Chemizier alias Barbecue, il quale, a sua volta, controlla Boston, al di là della Route 2.

Finora, però, Ti Gabriel ha resistito all’offensiva di conquista scatenata da G9 l’8 luglio, con un bilancio di quattro morti all’ora in un solo giorno. La battaglia va avanti con cecchini appostati sui tetti per colpire chiunque gli passi a tiro, incursioni notturne e esecuzioni di presunti traditori, come hanno certificato gli esperti Onu a febbraio.

In pratica, a giorni alterni, padre David ha dovuto caricare uno o più miliziani feriti – di qualunque gruppo – sulla propria auto per portarli in ospedale. Nessun altro correrebbe il rischio di essere colpito nel tragitto dalla gang rivale. Anche per questo consentono a lui e chi lo accompagna di circolare in relativa tranquillità tra i cumuli di rifiuti.

«Ancora sono qui», scherza il sacerdote. E aggiunge: «Meglio, però, non dare nell’occhio, qui precipita tutto in un attimo».

Dall’inizio di marzo, poi, la situazione è ulteriormente peggiorata. Lo scontro tra gang s’è fatto ininterrotto, il rumore degli spari scandisce sinistro le giornate. «Vivere è sempre stato difficile, ora, però, è diventato impossibile. Sono un’ambulante ma non posso più uscire a causa delle sparatorie. Due vicini sono stati colpiti – racconta Maria Marta, 43 anni, soprannominata “Testolina” per il viso smunto –. Non riesco più ad andare al mercato a rifornirmi e, comunque, in strada non c’è nessuno a cui vendere».

Marta Maria, i sei figli, il più piccolo di 12 anni, e relativi generi vanno avanti grazie agli aiuti che padre David riesce a raccogliere e a distribuire. Anche l’amica Lovina, la cui età non si misura in anni ma in cicloni a cui è sopravvissuta, vive di carità. Il conflitto ha paralizzato il commercio informale, le scuole, i centri medici, il commissariato di polizia è chiuso da anni.

La fame dilaga. «Il 75 per cento degli abitanti di Cité Soleil non mangia a sufficienza, la metà degli adulti fatica a fare un pasto al giorno. Nel 2020, la malnutrizione acuta era tra il 5 e il per cento, una cifra già alta. Ora, in base alla nostra rilevazione di gennaio, è al 20 per cento», afferma Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi per i Caraibi. Nei quasi vent’anni passati a Port-au-Prince, Fiammetta ha affrontato le convulsioni politiche dopo la caduta di Jean-Bertrand Aristide, il maxi-terremoto del 2010, il passaggio dell’uragano Matthew, le rivolte cicliche.

«Mai, però, avevo assistito a una simile emergenza umanitaria», aggiunge l’operatrice, la cui organizzazione sostiene 14mila famiglie di Cité Soleil e Martissant. «Abbiamo dovuto sospendere i progetti di sviluppo per concentrarci sull’assistenza immediata, soprattutto delle vittime della brutalità delle gang. Sono, così, tanti, però, che possiamo aiutare solo i casi più gravi. È terribile dovere fare una classifica dell’orrore. Soprattutto gli stupri sono cresciuti esponenzialmente. In alcune zone è accaduto praticamente a tutte».

Per le bande, parola dell’Onu, la violenza sessuale è un’arma di guerra per sottomettere la popolazione e umiliare i rivali. Come l’assedio.

Da mesi, G-9 impedisce il passaggio verso Brooklyn alle autobotti, unica fonte di acqua potabile dalla distruzione dell’impianto di distribuzione nel 2020, sempre per ordine di Barbecue. Non sorprende, dunque, che, il 28 settembre, il colera abbia fatto ritorno a un decennio di distanza dall’epidemia post-sisma. Stupisce semmai come con gran parte delle cliniche paralizzate dai combattimenti, si sia riusciti a contenerlo: con il nuovo anno, il picco è passato.

«È stata fondamentale l’attività di sensibilizzazione dei promotori di salute delle comunità che hanno spiegato alle persone come prevenire il contagio», sottolinea Benoit Vasseur, capo missione di Medici senza frontiere (Msf) nell’isola. Nei sei centri allestiti ad hoc dall’Ong-premio Nobel sono stati ricoverati oltre 14.400 pazienti.

«Venivano anche 45 persone al giorno con chiari sintomi della malattia», dice padre David che, nelle settimane più drammatiche, faceva la spola tra la chiesa e la clinica di Cité Soleil di Msf per trasportarli, in pratica rimasto nella zona. Almeno fino alla notte tra giovedì e venerdì. Quando i continui combattimenti hanno costretto l’organizzazione a sospendere temporaneamente le attività. Raggiungere l’ospedale per il personale ormai era diventata una sfida mortale. Per tutti, incluso padre David, aiutare s’è fatto ancora più difficile. «Spero che la guerra non ci porti via anche questo».