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12 gennaio 2010-2020. Haiti, dieci anni dopo il terremoto i bimbi muoiono due volte

Lucia Capuzzi, inviata a Port-au-Prince sabato 11 gennaio 2020

L'Unicef ha documentato le gravi condizioni dell'infanzia ad Haiti

Michel non ha sentito la frustata che ti fa perdere l’equilibrio. Né la terra ondeggiare freneticamente, trasformando le strade in voragini e le case in cumuli di assi. Dieci anni fa, il terremoto ha risparmiato il suo villaggio, nel sud di Haiti. Ad essere colpita è stata Port-au-Prince e l’area circostante, dove la scossa di 7 gradi Richter ha ucciso, in un solo giorno, 230mila abitanti. Eppure anche la vita di Michel è andata in frantumi il 12 gennaio di dieci anni fa. Insieme alla catastrofe, sono arrivate le promesse di aiuto dai governi del mondo, commossi dal grido del Paese più povero d’Occidente. I suoi genitori ci hanno creduto. E, passata la grande emergenza, quando la grande macchina della ricostruzione sembrava decollare, hanno deciso di offrire al figlio quanto loro non avrebbero mai potuto dargli: un’istruzione.

A 10 anni, dunque, nono di dieci figli, Michel è partito per la capitale, dove lo attendevano gli «zii». Non veri parenti ma conoscenti che, in cambio di una «piccola» collaborazione nei lavori domestici, si impegnavano a ospitarlo e a mandarlo a scuola. In realtà, Michel è diventato un restavek, baby schiavo, come altri 500mila minori haitiani, uno su dieci secondo fonti umanitarie. Un fenomeno in aumento nel decennio post-sisma. Servi tuttofare dei “poveri di città” che non potrebbero mai pagare un domestico. I piccoli fanno i lavori più pesanti: dato che nelle baracche non c’è acqua corrente, vanno a prenderla alla fonte pubblica, puliscono, fanno le commissioni. Il loro stipendio è qualche avanzo di cibo e un pavimento per dormire. Michel non sarebbe mai entrato in un’aula se qualcuno non avesse segnalato il suo caso al centro Kay Chal e alla sua colonna portante, suor Luisa Dell’Orto, piccola sorella del Vangelo di Charles de Focauld.
«Sono andata a parlare con lo “zio”– racconta la religiosa lombarda, impegnata nel sobborgo di Delmas 31 dal 2003 –. Per convincerlo, gli ho detto che se Michel avesse imparato a leggere e a scrivere sarebbe stato un domestico più efficiente... Dopo un lungo tira e molla, sei anni fa, ce lo ha mandato. Lo so, un po’ ho barato. Ma, alla fine, anche lui è rimasto soddisfatto: dopo il nostro biennio di alfabetizzazione, ora il ragazzo frequenta la quinta elementare con profitto e gli dà una grossa mano».

Una bimba haitiana malata - Archivio Ansa

Sono centinaia i restavek che hanno preso, per la prima volta, una penna in mano tra le pareti colorate di Kay Chal, “Casa Carlo”. Costruito grazie ai fondi raccolti da Caritas italiana con la maxi-colletta del 2010, promossa dalla Conferenza episcopale italiana (Cei), il centro – animato anche dai volontari di Caritas Ambrosiana – offre anche uno spazio sicuro a centinaia di bimbi del poverissimo quartiere. «Vengono dopo la scuola, a fare i compiti – dice suor Luisa mentre mostra orgogliosa la biblioteca –. Sanno che fino alle 17 si studia. Poi facciamo altre attività: dal ballo al basket. E ad organizzare i gruppi sono i nostri ex alunni cresciuti che vogliono restituire quanto hanno ricevuto».

Per la stessa ragione, Gilbert è tornato a insegnare nel Foyer di Riviere Froide, il “fiume freddo” che passa tra le colline della sconfinata periferia sud di Port-au-Prince. «Grazie a questa scuola ho conquistato la libertà. Ora voglio aiutare altri bambini a spezzare le loro catene», afferma il maestro trentenne, giunto a sei anni nella capitale dalla zona di Jeremie. «Era timido e spaurito ma molto tenace», aggiunge padre Jean-Claude Saint Just, superiore dei Petits Frères, prima congregazione maschile haitiana, nata l’11 febbraio 1960 proprio a Riviere Froide, al tempo aperta campagna. Ora, i tornanti sono affollati di casupole dove abitano almeno 20mila persone.

Se i loro figli possono studiare è grazie ai progetti dei Petit Frères, sostenuti da Caritas italiana. La scuola più vicina sta nel comune di Carrefour, ad almeno un’ora di cammino attraverso un labirinto di sterrati. L’agglomerato di Riviere Froide è il risultato di una serie di successivi esodi che, negli ultimi quarant’anni, hanno cambiato il rapporto tra città e campagna, svuotando le seconde e riempiendo a dismisura le prime, soprattutto la capitale, dove risiede oltre un terzo della popolazione. A inaugurare la fallimentare politica di urbanizzazione è stato, negli anni Ottanta, il dittatore Jean-Claude Duvalier, ansioso di trasformare Haiti nella Taiwan dei Caraibi con un’industrializzazione forzata. Poi, sono state le continue crisi e relative fiammate di violenza a far spostare gli abitanti all’interno della periferia metropolitana. «L’ultimo grande esodo è stato un “danno collaterale” del terremoto», sottolinea padre Jean-Claude. Da una parte, gli oltre 1,5 milioni di senza casa hanno occupato i dintorni di Port-au-Prince. Dall’altra, molti contadini hanno lasciato i villaggi sperduti e privi di qualunque servizio, nella speranza di trovare un impiego nelle ricostruzione. Il risultato è stato l’incremento costante della popolazione della capitale, per un totale ufficiale di un milione di abitanti in più. E il moltiplicarsi della baraccopoli: Canaan, Jelousie, Village de Dieu... «La produzione agricola, che già prima copriva appena un terzo del fabbisogno alimentare, si è, così, ulteriormente contratta. Dopo quattro, cinque anni, quando la macchina degli aiuti internazionali ha cominciato a rallentare, i nodi sono venuti al pettine», analizza padre Hervé Jean François, direttore di Caritas Haiti.

Stremata dalla recessione e da un anno di rivolta contro il presidente Jovenal Moïse, Haiti vive il decimo anniverario del sisma come un nuovo lutto. I volti dei visitatori al Memoriale di Titanyen, la cui terra rossa ricopre le fosse comuni, sono sconsolati. Insieme alle vittime di allora, il Paese piange la morte di una grande occasione di rinascita collettiva. Di un futuro più degno per la generazione post-sisma, schiavizzata dalla fame più di prima. «È mancato un progetto complessivo di ricostruzione da parte dello Stato, terribilmente fragile. Alla confusione si è sommata la corruzione», aggiunge padre Hervé.

Le potenze internazionali hanno chiuso gli occhi, per disinteresse o calcolo, sulla destinazione dei 6,4 miliardi di dollari di aiuti pubblici. E alle organizzazioni non governative, alla Chiesa, alle associazioni di volontariato è toccato portare avanti il lavoro, con i propri mezzi. Molte organizzazioni, scoraggiate dai mille paletti burocratici imposti dalle autorità si sono scoraggiate e sono andate vie. Altre sono rimaste e la loro azione evita al Paese di sprofondare nel baratro.

«Noi ci siamo e continueremo ad esserci – insiste Alessandro Cadorin, rappresentante di Caritas italiana ad Haiti –, al fianco della gente e di Caritas Haiti, di cui sosteniamo l’impegno. Il nostro approccio è quello di accompagnare le realtà locali, senza sostituirci a loro». I 221 progetti di solidarietà realizzati con una spesa di 24 milioni di euro dall’ente caritativo della Chiesa italiana sono un esempio di cosa la cooperazione lungimirante è capace di fare. «Ayti pap bliye», Haiti non dimentica, si legge all’uscita del Memoriale. Non può farlo. Perché il dolore passato è presente.