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L'intervista. Carlos Beristain: «Ha trionfato la voce delle vittime»

Lucia Capuzzi domenica 11 dicembre 2016

È stato, in assoluto, il grande inedito del processo di pace colombiano. Per la prima volta, le vittime – una rappresentanza di sessanta, accompagnate in gruppi di dodici dalla Chiesa locale – hanno potuto presentarsi e parlare al tavolo negoziale. La loro voce è stata fondamentale nel colmare il divario tra le due delegazioni “nemiche”. Aprendo uno spazio di trattativa da cui è scaturito l’accordo finale. «Oltre a una novità, la partecipazione delle vittime è stata una lezione morale per il Paese », afferma Carlos Beristain, psicologo spagnolo impegnato da 27 anni nell’assistenza ai superstiti dei conflitti latinoamericani. In qualità di esperto, Beristain ha lavorato per le Commissioni verità in Perù, Ecuador, Paraguay e Guatemala. Di Colombia, si occupa dal 1994. Un nazione spezzata, quest’ultima. Dalla geografia, dalla storia e, negli ultimi 52 anni, dal conflitto. Nel decennio più recente, la guerra si è concentrata nelle zone rurali, bacino di risorse, in primis la coca. «Ciò ha prodotto una distanza psicologica della popolazione delle città nei confronti delle vittime».

A lungo invisibili, queste ultime hanno fatto “irruzione” all’Avana. Con effetti dirompenti.
Al tavolo sono arrivate persone colpite dalla violenza dei diversi gruppi armati rivali. A loro volta, dunque, anche queste si percepivano come nemiche. Il racconto del dolore reciproco le ha unite. La loro disponibilità al dialogo – fra loro e con i propri carnefici – ha “costretto” i partecipanti alla trattativa a fare uno sforzo verso il compromesso. Per questo è importante che la voce delle vittime arrivi ora al resto della società colombiana, assuefatta all’orrore.

Che cosa intende precisamente?
La guerra prolungata si è insinuata anche nella mentalità dei colombiani. Per sopravvivere alla tragedia, questi ultimi hanno alzato un muro di fronte alla sofferenza altrui. Hanno creato meccanismi di giustificazione della violenza e occultamento dell’orrore. Anche il processo dell’Avana è stato guardato con scetticismo o indifferenza. I passi importanti compiuti al tavolo, dunque, non sono stati percepiti e metabolizzati dal resto della società. Proprio come è accaduto là, la voce delle vittime può rivelarsi essenziale per rompere il meccanismo. Il governo deve fare in modo che i colombiani possano ascoltarla.

Questa distanza spiega la vittoria del no al referendum del 2 ottobre?
Il rifiuto dell’accordo è nato dal fatto che tanti, non considerandosi coinvolti, non comprendono il beneficio della pace. Il cui raggiungimento implica necessarie concessioni reciproche. Con un’astensione al 63 per cento, però, più che di vittoria parlerei di indifferenza.

Uno dei punti più criticati è stata la scelta della giustizia ripartiva per i responsabili di crimini di guerra.
La giustizia ripartiva, impiegata nei dopoguerra di molti Paesi, è il contrario dell’impunità. Implica, invece, una serie di meccanismi per garantire il diritto alla verità, alla giustizia, alla riparazione e alla non ripetizione. Proprio a partire da queste prerogative si può creare un agenda per trasformare la società. Fondamentale, a tal fine, sarà la commissione per la verità. Poiché a partire dall’indagine approfondita di ciò che è accaduto, la Colombia potrà maturare una memoria inclusiva.