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Il rapporto. Investire in armi pessimo affare: istruzione e clima rendono il doppio

Luca Liverani sabato 25 novembre 2023

Carristi dell'esercito ucraino durante l'addestramento in Germania con un Leopard 1

Altro che «motore di crescita economica». La replica che militari e politici ripetono da sempre a chi solleva critiche sulle spese militari non regge alla prova dei numeri. La corsa agli armamenti che assorbe montagne di risorse dei cittadini – al di là delle considerazioni etiche e geopolitiche – produce incrementi di Pil e occupazione di gran lunga inferiori a quelli che verrebbero investendo in istruzione, sanità, protezione ambientale. Tutti comparti vitali cui vengono sottratte risorse da spendere in costosissimi sistemi d’arma. Anche solo economicamente, insomma, spendere in armi «è un cattivo affare».

A dimostrarlo con numeri e confronti è il rapporto “Arming Europe”che Avvenire è in grado di anticipare– commissionato ad accademici italiani dai tre uffici di Greenpeace aderenti al progetto “Climate for peace” – che analizza l’impatto delle spese militari nel Paesi Nato dell’Unione Europea. Con un focus su Germania, Spagna e Italia. Nell’ultimo decennio le spese militari dei Paesi Nato della Ue sono aumentate di quasi il 50%, dai 145 miliardi di euro nel 2014 a una previsione di bilancio di 215 nel 2023: più del Pil annuale del Portogallo. Con la guerra in Ucraina le spese militari per il 2023 dovrebbero aumentare di quasi il 10% rispetto al 2022. La nazioni Nato della Ue spendono l’1,8% del loro Pil per le forze armate, poco meno dell’obiettivo del 2% di Stati Uniti e Nato.

In un decennio la Germania ha aumentato la spesa militare del 42%, l’Italia del 30%, la Spagna del 50%. Sempre per l’acquisizione di armamenti: nel 2023 la spesa per armi nei Paesi Ue della Nato ha raggiunto i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio); la Germania ha triplicato la spesa, raggiungendo i 13 miliardi ; l’Italia 5,9, la Spagna 4,3. Le importazioni di armi della Ue (dati dell’istituto Sipri di Stoccolma) sono triplicate tra 2018 e 2022. Metà arrivano dagli Usa.

L’Unione Europea si è lanciata in impegnativi programmi di militarizzazione: il Fondo europeo per la difesa da 7,9 miliardi per la ricerca e la produzione di nuove armi nel periodo 2021-2027, il Fondo europeo per la pace – si chiama proprio così – con 12 miliardi per aiuti militari fuori dalla Ue nello stesso periodo. Un aumento della spesa militare in contrasto con la stagnazione delle economie Ue. Il Pil dei Paesi Ue della Nato tra 2013 e 2023 è aumentato del 12% (circa l’1% annuo) e l’occupazione del 9%, ma le spese militari del 46%, quattro volte il reddito nazionale.

Le acquisizioni di armi in particolare sono aumentate del 168%, otto volte di più. In Germania, Italia e Spagna gli armamenti stanno assorbendo una quota crescente delle risorse dedicate a nuove capacità produttive, tecnologie e infrastrutture. Inevitabile che, in un contesto di difficoltà delle finanze pubbliche, l’aumento della spesa militare sia avvenuto a scapito di altre voci di spesa. In Italia la crescita di spesa per armi (+132%) tra il 2013 e il 2023 supera anche quella in conto capitale per la costruzione di scuole (+3%), ospedali (+33%) o impianti di trattamento delle acque (in calo del 6%). Mentre l’Oms stima che nel 2021 le vittime di cambiamento climatico e inquinamento in Europa siano state 1,4 milioni di persone.

Somme enormi dirottate verso le armi, con ritorni economici assolutamente inferiori se investite in altri comparti. Anche perché le importazioni di armamenti (circa il 59% per l’Italia) sono molto più alte delle importazioni negli altri settori considerati (meno dell’1%). Dunque in Italia 1.000 milioni di euro spesi per l’acquisto di armi mettono in moto un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro. La stessa cifra investita in altri settori pubblici ha invece un effetto moltiplicatore quasi doppio, con un aumento della produzione pari a 1.900 milioni nella protezione ambientale, 1.562 nella sanità e 1.254 nell’istruzione.

Uno scarto ancora maggiore sull’occupazione: se nella difesa 1.000 milioni creano 3 mila nuovi posti di lavoro, nell’istruzione sarebbero quasi 14 mila, nella sanità più di 12 mila e quasi 10 mila nella protezione ambientale. Circa il quadruplo. Senza dubbio un pessimo investimento.