Mondo

Hormuz & altri. Gli stretti marittimi che scottano: lì può scoppiare un'altra guerra

Francesco Palmas giovedì 28 dicembre 2023

L'attacco dal cielo da parte degli Houthi della Galaxy Leader nel Mar Roisso

Ce n’eravamo accorti già durante la Guerra fredda: presidiare gli stretti è vitale. E lo conferma uno studio dello stato maggiore interforze statunitense. Negli anni ’80 si doveva sorvegliare i movimenti della flotta sovietica nelle strettoie del Bosforo, del Baltico, del Mar Bianco e del Mar del Giappone. Oggi sono i terroristi e i pirati a sconvolgere i flussi del commercio mondiale. Sono bastati i raid dei ribelli yemeniti Houthi per far capire anche ai meno esperti la vulnerabilità delle nostre economie, dipendenti dal mare per il 90% delle merci scambiate e per il 40% della ricchezza globale. Gli insorti ci affrontano con un conflitto asimmetrico, giocato sulle spalle di Gaza, facendo tornare in auge vecchie tattiche, mutuate della jeune école francese e dai pasdaran iraniani; negare la libertà di navigazione è il loro obiettivo, colpendone la linfa vitale, i commerci.

E il Mar Rosso, angusto intorno a Bab el-Mandeb e Suez, si presta alla perfezione alle manovre di “sea denial”, grazie alla diffusione dei droni kamikaze e dei missili antinave, in dote a molte tecnoguerriglie. La vulnerabilità degli stretti, crescente, impone di riflettere sulla protezione dei megaporti e delle navi. Probabilmente basterà l’operazione Prosperity Guardian a riportare le grandi compagnie di navigazione a Bab el-Mandeb e Suez, anche perché gli Houthi e l’Iran non possono osare troppo: l’area è un arsenale navigante, fitto di navi da guerra e aerei occidentali. Bab el-Mandeb, non diversamente da Suez, non è nuovo a tensioni; lo attraversano 17mila navi l’anno. L’uno e l’altro hanno già vissuto momenti tragici, dall’attentato alla petroliera Limburg, alle crisi drammatiche del 1956-57 e 1967-75. Oggi il dossier è complicato dalla natura filo-palestinese degli attacchi Houthi e dal pullulare di interessi spesso conflittuali, traditi dalla danza delle basi a Gibuti, sentinella principe degli stretti. I Paesi mediorientali e del Mashrek sono riluttanti a prendere posizioni nette per non alienarsi i favori delle opinioni pubbliche e non compromettere l’appeasement ritrovato con l’Iran, padrino degli Houthi. Anche gli americani sono prudenti: per ora non hanno bombardato lo Yemen; sanno che la mossa potrebbe incendiare la regione e aprire un fronte con Teheran, destabilizzando l’arteria numero uno del commercio mondiale: Hormuz, il “choke point” per antonomasia, polmone fra il Medio Oriente e l’Oceano Indiano, attraversato da 53mila navi l’anno e unica via d’uscita per il petrolio del Golfo diretto ai mercati dell’Asia e dell’Oceania.

Ricchezze enormi, intorno alle quali si stagliano antagonismi irriducibili fra Washington e Teheran e fra Washington e Pechino, in una rotta che dall’Europa passa per il Golfo, attraversa l’Asia centrale e finisce in Estremo Oriente. L’Iran, che domina lo stretto, ha un potere di ricatto enorme, forse il deterrente maggiore quando minaccia di bloccarlo, intrappolandovi il 6-7% del petrolio mondiale. E chi dice Hormuz dice anche militarizzazione delle flotte e contenzioso sul Mar Cinese meridionale, foriero di conflitti in divenire, aggravati dalla pirateria marittima e dal rischio saldatura fra bucanieri e terroristi di matrice salafita, soprattutto intorno allo stretto di Malacca, nerbo dei traffici mondiali da e per l’Estremo Oriente, imprescindibile per Cina, Taiwan, Corea e Giappone. Ne dipende il 90% del loro import petrolifero, con transiti globali pari a 80.000 navi l’anno, più che a Suez (23.583 navi) e a Panama (14.274 navi), un canale fiaccato ultimamente anche dalla siccità.