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Israele. La fine del Ramadan a Gerusalemme: «Preghiamo per i gazawi e per tutti»

Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme martedì 9 aprile 2024

Bambini giordani a Zarqua confezionano regali per la festa dei coetanei a Gaza: i pacchi sono stati poi paracadutati

«Auguriamo a tutti i musulmani visitatori o residenti “Ramadan kareem”». I cartelli, scritti in arabo, ebraico e sono disseminati ovunque per Gerusalemme. Gli auguri per il mese sacro sono una tradizione nella città dove oltre un terzo della popolazione è di fede islamica.

L’ultimo fine settimana prima dell’Eid el-Fitr – la conclusione del Ramadan che cade domani, mercoledì – è, da sempre, una grande festa popolare, con luci, decorazioni e tantissime persone per strada. Gli scorsi giorni, però, nella metà orientale di Gerusalemme – quella dove si concentra la gran parte dei residenti di origine palestinese – c’è stato ben poco movimento, tranne intorno alla moschea di al-Aqsa. Non è il primo Ramadan di guerra per i palestinesi. Ma è quello più triste. «Il nostro cuore è spezzato», dice Mustafa Abu Sway, filosofo e islamista dell’Università di al-Quds, nonché primo titolare della cattedra dedicata all’imam al-Ghazali ad al-Aqsa, dove tiene quotidianamente una riflessione. «Il Ramadan è un periodo dedicato alla spiritualità, all’attenzione agli altri, alla cura delle relazioni familiari. Lo celebriamo avendo tutti i giorni sotto gli occhi – in tv o sui social– le immagini della carneficina in atto a Gaza. Dobbiamo come scinderci per riuscire. Ed è molto duro. Il dolore per i fratelli della Striscia è lancinante. Dolore per le donne, gli uomini, i bambini. Soprattutto i bambini. I bambini morti e quelli che sopravvivono», aggiunge Abu Sway, esponente del Consiglio islamico Waqf di Gerusalemme, organismo responsabile dell’amministrazione del terzo luogo più santo per l’islam.

Il filosofo Mustafa Abu Sway - .

Lo studioso non nasconde di commuoversi nel guardare il telegiornale. «Come si fa a non piangere? Come ha potuto la comunità internazionale consentire che questo orrore andasse avanti per oltre sei mesi e prosegua ancora?». Proprio in segno di solidarietà con i gazawi, questo Ramadan gli eventi sociali sono stati cancellati. Sono stati mantenuti solo gli appuntamenti strettamente religiosi. Negli ultimi quattro venerdì – nonostante i limiti per i maschi adulti in arrivo dalla Cisgiordania – una media di almeno 100mila fedeli si è riunita per la preghiera nella moschea di al-Aqsa, blindata come non mai con oltre 36mila poliziotti e agenti schierati. Al contrario delle previsioni, però, i paventati incidenti non ci sono stati, a differenza degli anni scorsi. «I palestinesi hanno deciso di non dare a Itamar Ben Gvir quanto voleva: una scusa per intervenire e giustificare i suoi proclami estremisti. La preghiera è stata molto sentita. Come sempre, abbiamo implorato Dio di perdonarci dai nostri peccati. E di liberarci dall’inferno. Stavolta che l’inferno lo stiamo vivendo concretamente, la supplica assume un significato ancora più forte».

Il filosofo è convinto che la liberazione auspicata non sarà solo a vantaggio dei palestinesi ma anche degli israeliani. «L’occupazione genera violenza. Su chi la patisce e anche su chi la perpetra. Per questo deve finire al più presto». Il punto di partenza – aggiunge – è un cessate il fuoco immediato e permanente, un piano Marshall per la ricostruzione di Gaza e l’impegno concreto – fattivo e non meramente verbale – per la creazione dello Stato di Palestina. «Oggi si conclude il Ramadan ma la nostra orazione per la Striscia continua. Prego per i gazawi ogni giorno, E prego per ogni creatura, non importa di quale popolo, fede, cultura. Affido tutti a Dio. Ogni vita ha il medesimo valore».