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I drammi invisibili. Fame e narcos non vincono sulla tenace fede degli indios

Lucia Capuzzi sabato 7 aprile 2012
Danzano. Al ritmo dei tamburi. Marchiando la terra coi “piedi leggeri” da cui deriva il loro nome, “rarámuri”. Stavolta, però, premono forte sul suolo arido e roccioso della Sierra di Tarahumara, nel Nord del Messico. Per ricacciare nelle sue viscere “Rere Beteame Ru”, cioè “colui che vive sotto”, il diavolo. Non c’è posto per lui durante la Settimana Santa. Per questo gruppo indigeno che ha fatto del cristianesimo uno dei suoi tratti distintivi – tanto da autodefinirsi semplicemente “pagótuame”, “i battezzati” –, il Triduo pasquale è il centro dell’anno. E del loro universo. Perché segna l’inconfutabile vittoria di Dio sulla morte, del bene sul male. La fede dei rarámuri non si esprime in complicati ragionamenti ma in rituali semplici. E belli, come il paesaggio aspro di quest’angolo roccioso d’America, dove il vento ha scolpito le montagne in forme bizzarre: uomini, rane, condor. Una natura meravigliosa quanto crudele, come sanno bene gli indigeni. Non piove da due anni, la siccità ha bruciato i raccolti. I pochi terreni fertili rimasti sono ora bottino dei narcos, che li usano per piantare marijuana, invece del mais. L’emergenza alimentare minaccia 250mila persone, tra indigeni e meticci. Eppure i rarámuri non si arrendono. E anche quest’anno hanno deciso di celebrare la Settimana Santa con i riti e il fervore di sempre. Messe, sermoni dei capi della collettività, Via Crucis, processioni e soprattutto balli. «I rarámuri danzano solo in onore del Signore e della Vergine, mai per puro divertimento. Il ballo ha un significato religioso: è lo strumento per educare la comunità all’amore di Dio», spiega don Héctor Fernando Martínez, vicario generale della diocesi di Tarahumara. Impossibile, dunque, che i fieri rarámuri – abituati negli ultimi 500 anni a resistere a calamità e aggressioni – optassero per il suicidio di massa di fronte alla crisi alimentare. Eppure, quando a gennaio una Ong locale ha detto che gruppi di donne si lanciavano nei canyon per disperazione, in tanti ci hanno creduto. La notizia era falsa, la siccità e il conseguente allarme-fame, invece, erano e sono drammaticamente veri. «Ci siamo attivati fin da settembre, quando abbiamo capito che neanche quest’anno ci sarebbero stati raccolti. Attraverso il Programma interistituzionale di attenzione agli indigeni – una rete di organizzazioni religiose e no che insieme alla Chiesa lavorano con e per gli indios – abbiamo cominciato la raccolta di cibo. Stavamo avviando la distribuzione quando la falsa notizia dei suicidi di massa ha catapultato la Tarahumara sulla ribalta internazionale», racconta padre Javier Ávila, sacerdote gesuita da 37 anni nella Sierra. Sull’onda dell’emozione sono arrivate centinaia di tonnellate di aiuti, dalla popolazione e dal governo locale e federale. Quando le “lacrime mediatiche” si sono esaurite – abbastanza in fretta –, però, anche il flusso di derrate si è ridotto. L’emergenza, invece, è tutt’altro che risolta. Anzi, i momenti più duri devono ancora venire. «Finiremo di distribuire le 500 tonnellate raccolte intorno a maggio. Dato che continua a non piovere, poi, dovremo inventarci qualcosa. Altrimenti cominceranno le prime morti di bambini, i più esposti alla denutrizione», dice padre Pato – come lo chiamano – nel suo ufficio di legno di Creel, l’epicentro intorno a cui ruotano le comunità indie della zona. In sottofondo la musica di Chopin, di cui il sacerdote – e musicista di fama – è appassionato. Alle finestre si affacciano due piccoli rarámuri. «Adorano la musica. La sera collego la mia radio agli altoparlanti affinché si diffonda in tutto il Paese – dice il gesuita, tra i primi difensori dei diritti umani del Messico –. Li aiuta a sopportare le difficoltà». Che sono tante. La siccità atipica è solo una delle cause dell’emergenza. «Le altre sono: la deforestazione, dovuta al commercio clandestino di legname – afferma don Héctor –, e soprattutto la violenza». Nel cuore del Chihuahua, la Sierra è uno dei fronti della narcoguerra che dilania la nazione. «Qui si combattono il cartello di Juárez e quello di Sinaloa. Stretti nella morsa, gli indios subiscono soprusi di ogni tipo», aggiunge il sacerdote. Molti sono costretti a piantare marijuana, ad altri vengono tolte le terre. I criminali, inoltre, per dimostrare il loro potere si divertono a rubare ai nativi il poco che hanno: una vacca, una gallina, un pacco di mais. La pressione è continua. Tanto che molti rarámuri decidono di fuggire, unendosi alle centinaia di migliaia di sfollati a causa della violenza che vagano per il Messico. Avvenire ha potuto raccogliere decine di testimonianze di abusi documentati, i cui dettagli non possono essere resi noti per proteggere l’incolumità dei protagonisti. A dispetto di fame e narcos, però, i rarámuri danzano. Per ricacciare il male nel suo abisso. E far crescere la speranza, un passo alla volta.