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SENTENZA CORTE DI STRASBURGO. Fecondazione, vietare l'eterologa? Non è violazione dei diritti umani

Emanuela Vinai giovedì 3 novembre 2011
Il divieto di fecondazione artificiale eterologa non vìola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È un vero e proprio "ribaltone" a sorpresa quello reso noto ieri dalla «Grande Chambre» – l’istanza di appello – della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di procreazione assistita. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che non vi sia, da parte dell’Austria e della sua normativa sulla provetta che non consente la fecondazione eterologa, alcuna violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). L’«Austrian artificial procreation act», l’equivalente della legge 40 italiana, era finita davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo a seguito del ricorso di due coppie austriache che sostenevano come la legge di Vienna sulla fecondazione in vitro ledesse il loro diritto a formare una famiglia discriminandole rispetto ad altre coppie che potevano ricorrere a questa tecnica. Per i ricorrenti la fecondazione artificiale eterologa – cioè col ricorso a seme o ovuli esterni alla coppia – era l’unico modo per poter ottenere una gravidanza. In una prima sentenza, l’1 aprile 2010, la Corte aveva dato loro ragione affermando che proibire il ricorso alla donazione di ovuli e sperma per la fecondazione in vitro era ingiustificato in quanto un simile veto costituirebbe violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Ma il governo austriaco, sostenuto anche da Italia e Germania, aveva chiesto e ottenuto una revisione del caso davanti alla Grande Chambre che, con la sentenza di oggi, ha ribaltato la sentenza di primo grado. Secondo la Corte, non c’è stata violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea. Le reazioni alla sentenza di Strasburgo non si sono fatte attendere. Forte il disappunto dei radicali, per i quali improvvisamente la Corte non sarebbe più una fonte autorevole cui attenersi, ma anzi, secondo l’avvocato Filomena Gallo, «la sentenza definitiva appare altamente lesiva della libertà di ogni individuo di costruirsi un nucleo familiare». E mentre il ginecologo Severino Antinori parla di «Europa dei diritti medioevali», gli avvocati delle coppie italiane che hanno presentato ricorso alla Consulta negano la validità erga omnes della pronuncia: «Non sussiste alcun obbligo da parte della Corte costituzionale italiana di decidere adeguandosi alla Corte di Strasburgo, poiché la sentenza di oggi non ha alcun impatto diretto sulla dimensione italiana, riguardando solo l’Austria». Diametralmente opposto il commento di Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, che tiene invece a sottolineare come «le associazioni che adesso negano la significatività della sentenza per l’ordinamento italiano dimenticano che i loro ricorsi fanno tutti esplicito riferimento alla prima sentenza sul caso austriaco». «L’Italia – ribadisce la Roccella – ha voluto affiancare l’Austria in questo ricorso perché crede nella difesa della legge 40, che si conferma saggia e lungimirante». Soddisfazione anche da parte di Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita, che rileva come «le numerose aggressioni anche giudiziarie contro la legge 40 da oggi dovranno misurarsi contro questo nuovo consistente baluardo». Casini rimarca anche che «la Corte europea riconosce agli Stati la libertà di decidere autonomamente in materia di famiglia e di vita e perciò implicitamente respinge l’idea che esista un diritto al figlio come diritto umano fondamentale». L’associazione Scienza & Vita, per voce del presidente nazionale Lucio Romano, mette in risalto il valore della tutela del concepito: «Il divieto di fecondazione eterologa pone le sue basi sulla necessità di tenere conto della "dissociazione" di maternità e paternità, propria della tecnica. La Corte evidenzia in maniera inequivocabile la prevalenza di un principio fondamentale del diritto: la certezza dell’identità genitoriale».