Mondo

SVILUPPO NEGATO. Esistenze tra i rifiuti: un dramma asiatico

Stefano Vecchia martedì 27 gennaio 2009
Nell’Asia che vibra di attività e di potenzialità, appannate dall’incertezza di questi tempi di debolezza, ma comunque lontane da indicare un ripiegamento consistente, le carenze nei sistemi sanitari e nella gestione dei rifiuti rappresentano le spine nel fianco delle amministrazioni cittadine. Le immense discariche indonesiane, filippine, indiane, cambogiane, bangladeshi o pachistane mostrano l’altra faccia dello sviluppo continentale, sono cartine di tornasole delle sue potenzialità e delle sue velleità. Attorno a esse, ma sovente 'su' di esse sciamano centinaia di migliaia di sventurati che, in cambio di una possibilità di vita, seppure stentata e resa precaria da malattie e incidenti, traggono dai rifiuti risorse preziose in un contesto in cui crescono scarti e sprechi, sebbene molto meno dei fondi necessari per la loro gestione. E così, aree di antico o nuovo degrado delle metropoli vedono file interminabili di camion scaricare rifiuti raccolti durate ogni ora del giorno e della notte sotto una cappa pestilenziale che minaccia la salute e la vita stessa delle persone che qui lavorano e spesso vivono. In un ambiente da incubo, spesso aggravato da piogge torrenziali o da un sole implacabile, gli uomini scaricano i mezzi di trasporto, donne e bambini frugano tra il contenuto estraendo con abilità ogni avanzo di metallo, carta, plastica vetro riciclabile per venderlo. Un’umanità 'a perdere', che è sventuratamente spesso considerata "sub-umana". Anche nei casi, tutt’altro che rari, in cui questa gente non possa definirsi povera in assoluto secondo gli standard locali, essa finisce immancabilmente per ritrovarsi nei livelli più bassi della società, se già da questi non proviene. Nuovi schiavi, nomadi, immigrati, esponenti delle minoranze etniche o religiose, forniscono tradizionalmente la manodopera prima, trasformando le proprie esistenze in vite bruciate nelle discariche o nelle fogne dell’Asia. Ancora una volta, tuttavia, è l’India, forte dei suoi grandi numeri e delle radicate povertà associate a disparità sociali a sfondo religioso, a indicare una via particolare all’ineguaglianza e allo sfruttamento. Perché qui, nel Paese in cui il Mahatma Gandhi ebbe a dire, nel 1925, che «le fognature sono più importanti dell’indipendenza», a gestire i rifiuti e a consentire alle città di sopravvivere ai propri scarti sono soprattutto i dalit, 'gli esclusi', eredi della divisione castale radicata nell’induismo e soprattutto nella sua interpretazione opportunistica o fanatica da parte di gruppi connessi a interessi economici, politici, di potere. È così che il riciclo manuale dei rifiuti, come pure la pulizia delle latrine o delle strade, attività dure e a volte umilianti, perpetuano una discriminazione antica e senza speranza, che rinnova solo i suoi metodi ma non i suoi protagonisti. Ben 167 milioni di dalit e 84 milioni di tribali (ovvero una popolazione che eguaglia quella combinata di Italia, Germania, Gran Bretagna e Francia) sono accomunati da discriminazione sociale ed emarginazione economica, vittime di sfruttamento e di abusi dei diritti umani, depositari di mestieri attribuiti – con i loro rischi e il loro stigma sociale – per nascita. La gestione manuale dei rifiuti e la costruzione e manutenzione di latrine sono in India proibite per legge, tuttavia continuano ad esistere. Sotto accusa oggi non sono tanto i limiti finanziari e tecnologici alla gestione dei rifiuti e degli scarti della popolazione, quanto la mancanza di possibilità di lavoro e di benessere concrete per un gran numero di persone che rischia quotidianamente la salute in attività indispensabili alle metropoli, ma che della cui vita e della cui morte e malattia nessuno sembra accorgersi. «Privati dell’onore delle armi e di una proclamazione postuma di martirio, questi soldati sacrificano la vita per consentire alla marea dei liquami di fluire liberamente», scriveva recentemente un editorialista del settimanale indiano Tehelka. «Che cosa succede dei rifiuti organici che provengono dal 18,02 per cento degli indiani che secondo il censimento 2001 dispongono di servizi igienici moderni nelle loro abitazioni? Qual è la sorte dei dalit costretti a ripulire le latrine del resto della popolazione?», si chiedeva ancora il giornale. La risposta può essere drammatica, visto che sono almeno 22mila i dalit di varie sottocaste che muoiono ogni anno lavorando nel ventre delle metropoli indiane. A Hong Kong un lavoratore specializzato nella manutenzione delle fognature abbisogna di 15 diversi brevetti, non così in India. Delhi si appoggia su un reticolo sotterraneo di 5.600 chilometri di condotte che convogliano ogni giorno 2,8 milioni di litri di liquami. In questo mondo crepuscolare, attraversato da correnti di gas tossici, in tanti hanno perso la vita, soprattutto manovali arruolati dal subappalto che nella infinita disponibilità di dalit e tribali immigrati abitualmente diluisce le già scarse regole. Secondo statistiche ufficiali, in soli 14 dei 24 distretti in cui è diviso il sistema fognario della municipalità di Bombay, nel 2004­2005 sono morti 288 lavoratori. Erano stati 316 nel 2003-2004, vittime delle condizioni di lavoro precarie, di malattie croniche, come la tubercolosi, l’asma o di disfunzioni al fegato e all’intestino, problemi aggravati dalla malnutrizione e dallo stress di una vita sempre al limite. In condizioni di miseria, ai margini della società e senza possibilità di riscatto.