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Emergenza. Kenya: non c’è più posto per i somali in fuga

Matteo Fraschini Koffi domenica 27 settembre 2009
«La situazione è tragica», afferma ancora scosso Vincenzo Cavallo, documentarista dell’organizzazione non governativa Cultural Video Foundation (Cvf), appena tornato da Dadaab, il campo profughi a est del Kenya che confina con la Somalia. «Non capisco come un essere umano possa abituarsi a vivere per anni in quelle condizioni – continua Cavallo –. Giustamente uno dei rifugiati somali che ho intervistato mi ha detto che loro non si abitueranno mai, e non hanno altra scelta se non quella di sopravvivere». Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), da gennaio sono oltre 50mila i rifugiati somali che, fuggiti dalla guerra, hanno attraversato il confine sperando di trovare una situazione migliore in Kenya. La maggior parte di loro è stata registrata a Dadaab, il più grande campo profughi al mondo che, con una capienza di 90mila persone, al momento ne ospita più di 270mila. Le condizioni si sono aggravate con i continui scontri che insanguinano la Somalia quotidianamente, provocando un flusso di nuovi arrivi a un tasso di 6.400 disperati somali al mese. I campi di Dadaab sono Ifo, Hagadera e Dagahaley. Quest’ultimo è dedito agli ultimi arrivati e, per via dell’insostenibile sovraffollamento, è appena stato «decongestionato». Infatti, più di 9mila rifugiati sono stati trasferiti a Kakuma, un altro campo profughi a nord ovest del Kenya. «Appena siamo arrivati a Dagahaley – continua Cavallo – davanti a noi si è presentata una scena spettrale. Un paesaggio desertico, animali abbandonati in cerca di cibo tra la spazzatura, e tende fatte di stracci a fianco a case senza tetto. Una donna ci ha parlato delle sue difficoltà di crescere da sola otto figli in una terra dove non c’è niente a parte gli aiuti umanitari». Dagahaley è anche uno dei campi più insicuri, dove durante la notte si aggirano i banditi che reclamano il territorio occupato dai rifugiati, e le iene in cerca di cibo hanno più volte attaccato i bambini. «Inoltre c’è un alto tasso di violenza – racconta alle telecamere di Cvf una somala – alla mia vicina di casa due somali hanno violentato la figlia di dodici anni mentre andava a prendere la legna. Ora la ragazzina è sotto choc, non esce dalla capanna ed è discriminata sia dagli adulti sia dai suoi coetanei che la considerano un’intoccabile». In alcune aree all’interno degli altri due campi si sono invece formati dei mercatini e la sicurezza è un po’ migliore. Qui però abitano i profughi che sono arrivati con l’inizio della crisi somala nel ’91. L’Acnur descrive la situazione di Dadaab come devastante, ma continua a lavorare registrando la presenza di ogni rifugiato e distribuendo le tessere di identificazione per le cure mediche e la distribuzione del cibo. Sono frequenti i casi di depressione e di disturbo da stress post traumatico, poiché in migliaia hanno visto i propri cari massacrati e le loro abitazioni crivellate di proiettili o distrutte dalle bombe.