Mondo

Analisi. Ebola, volti e speranze dalla Sierra Leone

Matteo Fraschini Koffi venerdì 30 gennaio 2015
A minata Kamara ha solo 3 anni e uno sguardo serissimo. In meno di sei mesi, ebola le ha strappato 14 membri della famiglia: i genitori sono stati i primi a morire, poco dopo due fratelli più grandi, due zii e infine diversi cugini. Gli occhi neri e profondi della bambina sembrano riflettere l’oscurità di questa spaventosa epidemia. «È incredibile come sia riuscita a sopravvivere», spiega Paulyanna Kanu, operatrice addetta alla protezione dei minori per il Family homes movement (Fhm), partner locale dell’organizzazione italiana Avsi. «Dopo la morte di sua madre, Aminata è stata portata dalla zia al funerale nella località settentrionale di Makeni. Al ritorno la zia è morta, infettando suo marito, alcuni figli e altri parenti – continua Paulyanna –. È davvero un miracolo che questa bambina sia ancora tra noi». Aminata ora vive nella comunità di Kuntuloh, a Est della capitale Freetown, uno dei punti nevralgici dove il virus ha fatto strage. I tetti in lamiera e legno si confondono tra le verdi colline scoscese che si tuffano verso il mare. Alcuni alberi imponenti fanno ombra a gruppi di giovani che, senza lavoro né scuola, passano il tempo a giocare tra loro. È invece impressionante il numero di cani che fanno da guardia ai loro padroni o che, randagi, si riposano al sole. In questa realtà comune a tutte le baraccopoli del continente africano, un intreccio di fili rossi segnala le case poste sotto quarantena. Le famiglie che occupano queste abitazioni sono costrette a non oltrepassare il "confine" per 21 giorni, il tempo d’incubazione del virus. Per loro non è quindi possibile recarsi al mercato, lavare i vestiti, o andare a pregare in chiesa o in moschea. E se un nuovo caso di ebola si presenta durante la quarantena, il conto alla rovescia ricomincia daccapo.
«Mi raccomando, Matteo: non toccare niente, non avvicinarti alle persone, non entrare nelle loro case e tirati giù le maniche della camicia per evitare qualsiasi contatto diretto». Paulyanna è categorica. Scendiamo dall’auto per distribuire cibo a una famiglia in quarantena che però è sprovvista del filo rosso davanti all’abitazione. Bisogna quindi stare più attenti a ciò che si calpesta o si sfiora. Inoltre, le guardie che dovrebbero assicurare il rispetto delle regole dell’isolamento non sono presenti da diverso tempo. O sono scappate per la paura, oppure pensavano di eludere i controlli delle organizzazioni umanitarie. «Siamo al sedicesimo giorno di quarantena e non abbiamo ricevuto cibo da 5 giorni – afferma uno dei capifamiglia, vicino di casa di una donna morta un mese fa dopo aver trasmesso il virus alla figlia –. Ieri finalmente il governo si è accorto di noi e ci ha inviato alcuni operatori con i viveri». La situazione è infatti molto delicata in Sierra Leone, il Paese che insieme alla Guinea Conakry e alla Liberia sta subendo le conseguenze peggiori della diffusione del male. Da quando l’epidemia di ebola è scoppiata il 24 maggio dell’anno scorso, il governo di Freetown, insieme alle agenzie internazionali e alle organizzazioni non governative locali, sta lottando contro il tempo per salvare il maggior numero di vite possibile. Delle oltre 8.800 vittime, circa 2.800 sono morte in questo Paese ricco di diamanti ma povero di tutto il resto. Non c’è da meravigliarsi, purtroppo. Il sistema sanitario è in pessime condizioni. Solo alcuni ospedali, spesso sostenuti da aiuti esteri, dimostrano di funzionare davvero. Ma persino in questi ultimi, il personale talvolta si allontana appena viene a contatto con un caso sospetto di ebola. Inoltre, le statistiche più recenti precisano che la Sierra Leone ha un solo medico ogni 50mila pazienti, e uno dei più alti livelli di mortalità per parto. «La situazione sanitaria era già gravissima, ebola la sta aggravando ancora di più», afferma Daniel Sillah, fondatore della Saint Mary’s home of charity (Smhc), sostenuta da tre anni dall’Onlus italiana "Orizzonti" di Cesena. «Nella zona settentrionale di Madaka, dove lavoriamo, fino all’80% delle donne muore dando alla luce il figlio. La febbre emorragica ha radicalmente aumentato il numero di decessi tra i genitori – continua Daniel –; con mia moglie Lucy abbiamo adottato 10 tra ex bambini soldato, orfani e due gemelle di 6 anni che prima erano molto malate. Ma abbiamo bisogni di finanziamenti per aiutare le 150 famiglie di cui ci occupiamo». Secondo i dati di quest’ultima settimana, la Sierra Leone sembra lentamente avviata a uscire dall’emergenza della febbre emorragica. I decessi si sono ridotti e i casi di contagio paiono diminuire. Ma diversi operatori sul campo avvertono che non bisogna fidarsi troppo dei numeri pubblicati dai governi e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). «Le autorità parlavano di 11 casi di ebola in tutto il Paese registrati mercoledì scorso – si lamenta un’assistente sociale che collabora con l’Oms e preferisce mantenere l’anonimato –. Invece oggi abbiamo scoperto che 4 bambini sono risultati positivi quello stesso giorno e non figuravano nelle statistiche ufficiali». Non è affatto facile tenere il conto di tutti i casi registrati a livello nazionale. Molti malati preferiscono nascondere i loro sintomi e morire senza provare a curarsi. Hanno paura di essere discriminati dalla comunità anche quando riescono a sopravvivere al virus. Per questo in città sono stati esposti cartelloni che, sembra un paradosso, invitano la gente a non stigmatizzare chi ha perso un familiare a causa del virus o chi è riuscito a guarire. «C’è un lavoro davvero delicato dietro la reintegrazione nella comunità di una persona guarita da ebola», assicura Paulyanna, mentre i suoi colleghi effettuano un’altra distribuzione di scatoloni pieni di viveri finanziati dalla Cooperazione italiana e gestita appunto da Fhm/Avsi. «Non solo parliamo a lungo con i parenti e i vicini di casa di chi è uscito da un centro sanitario perché guarito dal virus. Ma da tempo – continua Paulyanna – abbiamo lanciato programmi radio che ci permettono di raggiungere gran parte della popolazione nei diversi quartieri di Freetown». Il presidente Ernest Bai Koroma ha dichiarato all’inizio dell’anno che «l’epidemia sarà sconfitta entro marzo». Mentre una serie di test per il vaccino dovrebbero cominciare nello stesso periodo in Sierra Leone, anche le scuole si stanno preparando a riaprire tra poco più di un mese. Ma sono molti gli scettici. Una cosa è certa: l’interruzione delle lezioni sta aumentando il numero delle gravidanze precoci. «Sebbene sia contrario alla riapertura della scuola, stiamo notando un radicale aumento delle ragazzine rimaste incinte in questi ultimi mesi – avverte Harry Kpange, a capo del coordinamento di alcuni progetti di Fhm/Avsi –. E questo sta causando scenari disastrosi, soprattutto per le famiglie più povere». Dopo 11 anni di guerra civile finito nel 2002, questo peraltro bellissimo Paese dell’Africa occidentale è costretto ad affrontare un nuovo terribile trauma. Una crisi che, per molti versi, è peggiore del conflitto. Ebola infatti non puoi vederlo arrivare e non sai mai quando ti prenderà di mira. Con il virus non puoi negoziare un cessate il fuoco o mediare un accordo di pace. È un nemico invisibile e, allo stesso tempo, presente dappertutto. «Non fidarti nemmeno di tua madre o di tuo padre – conclude Harry, sottolineando che la vigilanza contro ebola deve rimanere molto alta –. Non fidarti di me. Io non mi fido di me stesso! Quindi tu non devi fidarti di me come io non mi fido di te».