Mondo

DIRITTI VIOLATI. La tortura degli uomini ferita aperta del mondo

Stefano Vecchia sabato 25 giugno 2011
Domani, 26 giugno, ricorre la Giornata internazionale e a sostegno delle vittime della tortura, quest’anno alla 13ma edizione. Un’iniziativa per ricordare la ratifica, il 26 giugno 1987, da parte dei primi venti paesi, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti.Nel tempo, tuttavia, queste pratiche non si sono esaurite e la loro applicazione si è estesa oltre i confini geografici di allora e su gruppi di popolazione diversi. Se 24 anni fa a ispirare la Convenzione fu soprattutto la situazione dei diritti umani in paesi dai regimi dittatoriali e illiberali, oggi è sempre più la condizione in cui si trovano profughi e fuggiaschi da realtà di conflitto e degrado. Poco conta che attualmente la Convenzione abbia 66 paesi firmatari e altri 55 associati, davanti a una realtà che vede in pratiche coercitive, abusi e violenze psico-fisiche strumenti costanti di controllo e di intimidazione. Che includono come delineato da Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto, sia paesi firmatari della Convenzione, come Gran Bretagna, Francia, Germania, Nigeria (che detiene forse il record delle esecuzioni extragiudiziarie dovute alle forze di sicurezza), Cina, sia paesi, come il Myanmar e il Bahrain, che ne sono ancora esclusi.  Oggi, in un gran numero di paesi, una novantina quelli elencati da Human Rights Watch nel suo Rapporto del 2010, forme di tortura si affiancano abitualmente alla carcerazione, si associano al controllo della popolazione e dell’ordine pubblico, sono strumenti di dissuasione verso  dissidenza o proteste. Vittime ne sono, in numero crescente anche i minori, arruolati con la forza tra combattenti o utilizzati a supporto delle necessità delle parti nei conflitti, e le donne. Lo stupro, come registrato e denunciato in questi giorni anche in Libia, è diventato un diffuso strumento di terrore sulle popolazioni civili da parte dei belligeranti.  Esiste tuttavia anche una realtà transnazionale su cui forme di violenza e coercizione fisica o psicologica vanno sempre più riversandosi. In aree diverse del pianeta, un gran numero di persone tra i milioni in fuga o allontanate con la forza dalle terre d’origine subiscono una qualche forma di tortura, prima della partenza o, più spesso durante il loro peregrinare ma anche alla meta. Un problema che per la persistenza delle conseguenze sulle vittime, sulle famiglie e sulle comunità diventa, come sottolinea una ricerca della Facoltà di Medicina dell’Università di Boston (Usa), «un problema di salute pubblica globale sovente sottostimato anche per la tendenza dei sopravvissuti a non rendere pubblica la propria condizione».Uno studio della stessa Facoltà ha messo in luce come l’11% di pazienti di origine straniera trattati in centri di salute pubblica primari negli Stati Uniti siano stati sottoposti a tortura. Un dato coerente con le stime che indicano che una percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei rifugiati a livello mondiale (11 milioni quelli definiti come tali e altrettanti quelli diversamente riconosciuti) abbiano subito una qualche forma di tortura, percentuali che salgono ulteriormente  in alcuni gruppi etnici. I dati son disomogenei e da qui la difficoltà di fornire cifre confrontabili. Può non sbalordire, per quanto drammatica, la cifra di almeno 300 prigionieri deceduti lo scorso anno nelle carceri in Myanmar per maltrattamenti e torture; colpisce invece il dato dei quasi 1.800 morti in carcere tra il 2007 e il 2008 e 127 sotto custodia della polizia nel biennio 2008-2009 dell’India. 143 i morti per maltrattamenti in prigione denunciati solo dal movimento Falungong in Cina nei diciotto mesi precedenti i Giochi Olimpici, ma la situazione resta grave. Come suggerisce anche Amnesty International, «la tortura in Cina resta uno delle maggiori violazione dei diritti umani e il numero di funzionari che la utilizzano, come pure quello delle loro vittime è in espansione».