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La sentenza. Quei diamanti insanguinati che armano le guerre africane

Paolo M. Alfieri giovedì 20 luglio 2017

La pulizia del materiale in una miniera clandestina di diamanti in Sierra Leone

Se ci fosse stato ancora bisogno di una conferma sui motivi alla base di instabilità e scontri in Centrafrica, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha fornito ieri un’ulteriore riprova. Diamanti insanguinati, li chiamano, piccoli e lucenti ma ricoperti del sangue delle troppe vittime di questa e di altre situazioni violente nel continente nero, così come lo sono l’oro e gli altri minerali preziosi per i quali non tacciono mai le armi. La Corte ha confermato il congelamento dei fondi di Badica e Kardiam, società con sede in Belgio, accusandole di aver violato i divieti di esportazione di diamanti dalla Repubblica Centrafricana e di aver alimentato così il conflitto nel Paese.
Nel 2014 Badica ha acquistato diamanti nelle regioni di Bria e Sam-Ouandja, «dove gruppi armati già parte della coalizione Seleka impongono tasse agli aeromobili che trasportano preziosi e si fanno pagare dai cercatori per garantirne la sicurezza». Fondi e risorse sarebbero finiti non solo ai miliziani Seleka, ma anche ai guerriglieri Anti-Balaka, loro rivali. Badica è accusata di aver esportato anche oro proveniente da Yaloké.
È dal 2003 che il cosiddetto Processo di Kimberley, un sistema di certificazione internazionale per i diamanti grezzi, tenta di porre un argine alla commercializzazione dei preziosi provenienti da zone di conflitto. Nel maggio 2013, due mesi dopo la destituzione del presidente François Bozizé, il Centrafrica è stato sospeso dall’accordo che vede impegnati altri 80 Stati, proprio per il timore che i diamanti finissero per finanziare la guerra. Ma non è bastato.
Altri Paesi sono vittime di situazioni simili. Basti pensare alla Repubblica democratica del Congo, dove numerose milizie si contendono vastissimi territori ricchi di diamanti alluvionali, territori nei quali anche i bambini vengono sfruttati alla ricerca dei preziosi. Ancora sotto osservazione è la Costa d’Avorio. Nel 2014 l’Onu ha eliminato l’embargo quasi decennale sui suoi diamanti, a lungo utilizzati per corrompere e comprare armi. Sono stati riconosciuti i passi avanti fatti dal Paese, ma le situazioni di illegalità non sono state del tutto risolte. Stesso discorso per la Sierra Leone, negli anni Novanta assurto a simbolo globale dei diamanti insanguinati. Ancora oggi almeno il 20% dei suoi diamanti viene contrabbandato.
Secondo analisti come Claude Kabemba, direttore di Southern Africa Resource Watch, «conclusa la maggior parte dei conflitti armati legati ai diamanti, il Processo di Kimberley continuerà ad avere un significato solo se potrà monitorare l’intera catena produttiva e verificare se i diamanti stiano alimentando violazioni dei diritti umani o nuovi conflitti». È una sfida che riguarda non solo l’Africa ma il mondo intero.