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IL CONFLITTO IN SIRIA. I cristiani si alleano per la «transizione»

Camille Eid lunedì 18 febbraio 2013
La scelta di Antiochia non sembra casuale. Pur trovandosi oggi inglobata nella Turchia, la “Città di Dio” dove i discepoli di Cristo furono chiamati per la prima volta con il nome di cristiani è anche la sede titolare dei cinque patriarchi d’Oriente residenti tra Beirut e Damasco, che si fregiano tutti del titolo di “Antiochia e tutto l’Oriente” (maronita, greco-cattolico, greco-ortodosso, siro-cattolico, siro-ortodosso).È qui che venerdì si sono dati appuntamento alcuni dei massimi rappresentanti della società civile cristiana della Siria per dare vita a un nuovo organismo che hanno chiamato «Siriani cristiani per la democrazia». Tra i presenti Michel Kilo, Samir Sattouf, Rouba Hanna, Elias  Warde, Spiridon Tannous, Bassam Bitar, Ayman Abdel-Nour, Issam Elias e Michel Sattouf. Ognuno di loro ha alle spalle una lunga storia di lotta per i diritti umani, fatta anche di carcerazione ed esilio. «I cristiani siriano firmatari di questo patto si impegnano davanti al popolo siriano di rimanere fedeli al principio di unità nazionale e di difendere con ogni mezzo il suo diritto alla libertà e dignità». E ancora «di lavorare a favore di uno Stato indipendente e forte che abbracci e tuteli tutti i suoi cittadini, a qualsiasi religione o credo appartengano». Quella dei cristiani siriani è una tragedia nella tragedia. Minoritari nel contesto nazionale (sono appena il 7 per cento, tutte le denominazioni confuse), i cristiani si sono trovati in una posizione scomoda ancor prima della scoppio della ribellione contro il regime degli Assad. Il mantenimento di un quadro di laicità istituzionale (l’islam è solo la religione del capo dello Stato) aveva assicurato loro un trattamento tendenzialmente egualitario, mentre la repressione governativa del fondamentalismo islamico aveva rafforzato, la coesione di molti cristiani attorno a un governo autoritario e minoritario che si presentava come “garante” delle minoranze. Da qui l’estrema prudenza manifestata negli anni scorsi dalla gerarchia cristiana verso un regime che li proteggeva sì nell’immediato, ma che rischiava di condannarli a subire la rivincita di un nuovo potere intransigente sunnita (il 75 per cento della popolazione). Dopo lo scoppio della rivolta, la spaccatura tra i cristiani si è resa più evidente tra chi paventava con ansia la nascita di uno Stato islamico sunnita ritenendo più sicura l’evoluzione del regime attuale e chi, dall’altra, puntava al cambiamento subito, contro l’attuale establishment, insistendo sulla possibilità che la rivoluzione aprisse spazi alla democrazia e al rispetto delle diversità. La “sindrome irachena” trapela in tutti i discorsi della gerarchia locale, dato che la Siria aveva accolto un gran numero di cristiani iracheni fuggiti dal nuovo Iraq. Per molti cristiani, l’unica salvezza diventa la fuga. Con una perdita irreparabile al mosaico religioso. Intanto, la popolazione cristiana pagava un caro tributo in una guerra che sta assumendo connotati confessionali. Si parla di circa 150mila cristiani assediati dal terrore in oltre 40 villaggi di Wadi an-Nasara, la “Valle dei cristiani”, nella Siria occidentale. Vittime collaterali delle milizie islamiste che si sono stabilite nella zona che pullula di barricate dell’esercito regolare deciso a mantenere il collegamento tra Damasco e la regione costiera a maggioranza alauita.