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Intervista. «Il Medio Oriente ha bisogno dei cristiani»

Camille Eid venerdì 10 aprile 2015
«La vede quella bella composizione? – dice il principe indicando i fiori sulla scrivania –. Ecco: il Medio Oriente è bello se mantiene il suo coloratissimo pluralismo etnico-religioso».  Hassan bin Talal, lo zio di re Abdallah II di Giordania, è una delle personalità islamiche più impegnate nel dialogo interreligioso. «Il mio interessamento a queste tematiche – spiega – lo devo sia ai miei genitori sia alla mia esperienza personale. Da ragazzo mi sono  spostato tra La Mecca, Roma e Gerusalemme; da giovane mi sono appassionato agli studi teologici, studiando persino l’ebraico e il latino per attingere direttamente alle fonti dell’ebraismo e del cristianesimo. Plurale fu il mio approccio al mondo dei sociologi e degli orientalisti, come Jacques Bercq, Fernand Braudel e Albert Hourani, come plurale fu la mia cerchia di amici, che comprendeva armeni, circassi, turchi, inglesi e tante altre etnie. Avevo tutte le carte in regola per poter vivere il Rinascimento arabo». Rinascimento i cui effetti si intravedono a stento, oggi. Rimango convinto che alla fine la “ex Oriente lux” vada incontro all’Illuminismo. Il direttore dell’Istituto per le relazioni internazionali di Parigi, Dominique Moïsi, sostiene che l’Occidente è il continente della paura, il mondo arabo è il continente dell’umiliazione e l’Asia è il continente della speranza. Noi non riusciamo ancora, in questa “Terra Media” in cui viviamo, a considerare nella sua globalità quella “faglia politica” che si estende dal Mar Nero al Mare Arabico. Perciò non realizziamo che la disgregazione di queste placche – costituite da un gran numero di gruppi religiosi ed etnici – è il risultato dei pogrom in Russia e dei primi spostamenti di intere popolazioni autoctone. Lo spostamento, o meglio l’esodo, dei cristiani dall’Iraq e dalla Siria rientra secondo lei in questa prospettiva storica globale? Certamente, e questo è molto grave perché i cristiani orientali sono sempre stati i più efficaci difensori delle cause arabe, interpretando al meglio, grazie alla loro apertura alla civiltà occidentale moderna, le aspirazioni di tutti gli arabi. Capisco i timori dei cristiani – in Oriente e in Occidente – sul futuro della loro comunità nella regione, ma non bisogna permettere alla paura di prevalere. I cristiani sono la popolazione autoctona qui, e la nostra memoria collettiva è profondamente arricchita dal contributo delle Chiese orientali. Perciò chiedo sempre ai cristiani di armarsi di pazienza, elasticità e sensibilità, e di lasciare che l’attuale ondata di fanatismo si esaurisca come si sono esaurite altre ondate in passato. Solo che adesso si profila, per loro, il rischio estinzione. Siamo tutti a rischio estinzione. Persino i sunniti iracheni, che non sono certo una minoranza nel Paese. Nessuno in Occidente aveva sentito parlare, fino a pochi mesi fa, della comunità yazida, ma ora tutti sanno che è necessario proteggerla. In ogni caso, anch’io constato con apprensione come la borghesia musulmana stia abbandonato il Medio Oriente, perché so che, in genere, il proletariato è attratto dai governi dispotici. È un’affermazione molto dura. È basata sui precedenti storici. Hitler ha potuto alimentare la sua ideologia autoritaria con l’odio verso le conquiste altrui, cavalcando il sentimento di ingiustizia diffuso tra i tedeschi. Lo stesso fanno, oggi, i nuovi fascismi, rappresentati dai diversi fondamentalismi religiosi. Non trova che una parte di responsabilità ricada anche sull’islam moderato, che sembra incapace di contrastare la propaganda del-l’Is? Ammetto un fallimento sul piano della formazione umana. Abbiamo fallito sul piano dell’uguaglianza tra uomo e donna: nella nostra società è ancora dominante un atteggiamento maschilista. Abbiamo fallito nel lavoro sugli educatori religiosi, i quali registrano il livello più basso di preparazione umana e scientifica, in cui è assente ogni forma di interdisciplina. La formazione richiede nozioni di antropologia,  sociologia, psicologia, pedagogia. Basta verificare quanto sia frequente il verbo «uccidere» nei testi scolastici per capire l’impatto che questo può avere sui nostri bambini. Come possiamo sottrarre i nostri figli alla tentazione dell’odio seminato dai fanatici se i telegiornali sono sempre colmi di notizie di guerra e violenza? Soluzione educativa e non solo militare, quindi. Noi arabi, all’indomani della Prima Guerra mondiale, non siamo riusciti a creare uno Stato basato sul pluralismo e abbiamo vissuto per un secolo sotto diverse forme di dittatura che hanno considerato la questione dell’estremismo un mero problema di sicurezza. La preoccupazione maggiore è sempre stata la sopravvivenza del regime. Ora non abbiamo soluzioni. Ma anche gli americani sembrano non avere alcuna “exit strategy” riguardo all’Is. Senza parlare della confusione che regna quando si contrappone un cosiddetto «pericolo sciita iraniano» a un «pericolo sunnita saudita». Lo sciismo non è affatto monopolio dell’Iran, e lo stesso vale per il sunnismo. Come uscire da questo stallo? Attraverso la convocazione di una conferenza sulla sicurezza e la cooperazione regionale. Il segretario di Stato Usa John Kerry vuole spiegare ai leader arabi che l’accordo nucleare con l’Iran non rappresenta un pericolo per loro? Perché, allora, non riunire attorno allo stesso tavolo arabi, iraniani e altri per parlarne direttamente e trovare dei comuni denominatori? In tal caso, i vantaggi di una simile conferenza non sarebbero limitati al solo dossier nucleare – come accaduto, per esempio, a Ginevra –, ma interesserebbero ogni forma di collaborazione tra i popoli della regione. E questo si potrebbe ripercuotere sullo sviluppo. Le risorse non mancano certo nella nostra regione, ma la maggior parte dei nostri proventi va all’acquisto di armi. La conferenza permetterebbe ai nostri Paesi di accedere a una vera indipendenza dalle varie multinazionali. Basta sovrapporre a una cartina del Medio Oriente i tracciati di oleodotti, gasdotti e risorse idriche per capire come mai si combatte a Tripoli o a Kobane. Prevale ancora, purtroppo, una certa visione affaristica della nostra regione: ci si interessa a noi nella misura in cui abbiamo il petrolio. Continuare ad annusare estasiati il barile di petrolio senza pensare al benessere dell’intera società, e non solo di poche famiglie, significa servire Mammona al posto di Dio. Servire Dio porterà allora a una nuova mentalità? Esiste oggi una vera crisi di fiducia tra arabi e Occidente. I casi sono due: o sarà colmata dal nuovo fascismo religioso, direi da una “guerra dei Trent’anni”, o da un nuovo progetto di intra-indipendenza. Dico intra-indipendenza e non interdipendenza, che sia rispettosa delle diversità culturali e religiose. La risposta sta in un governo fondato sul pluralismo, la cittadinanza e il contratto sociale nei suoi tre aspetti: politico, economico e civile. Finora, tutti i nostri progetti nazionali hanno escluso ogni forma di pensiero e puntato sull’emarginazione pura e semplice dell’altro. Il Papa insiste molto su questo tema. Per questo considero di estrema importanza la sua visita all’Onu, prevista per settembre, o al Congresso americano. Spero chieda un nuovo ordine umano in cui venga esaltata la dignità dell’uomo, chiunque sia, e capace di impedire all’uomo di fare la guerra contro suo fratello.