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La Ue e la minaccia dei "combattenti". Così i pendolari del jihad sfuggono a un’Europa divisa

Vincenzo R. Spagnolo venerdì 9 gennaio 2015
​Era il 22 giugno 2013 quando l’allora commissario europeo agli Affari interni, Cecilia Malmström, annunciava su Avvenire un action plan con «misure concrete» per contrastare la minaccia dei cosiddetti foreign fighters. All’epoca, il presidente della Commissione era ancora Josè Manuel Barroso, gli Stati membri erano 27 e la stima dei combattenti partiti dai Paesi europei per unirsi alle milizie islamiste si aggirava sulle «500-1.000 persone». Sono trascorsi da allora 18 mesi, gli Stati europei sono diventati 28, la Commissione ha cambiato composizione e presidenza. Ma il numero di pendolari dello jihad con passaporto europeo è cresciuto esponenzialmente: per il coordinatore anti-terrorismo Ue, Gilles De Kerckhove, sarebbero oltre tremila (compresi 53 dall’Italia). E alcune stragi (dalla sparatoria del maggio scorso al museo ebraico di Bruxelles a quella dell’altro ieri a Parigi) ne hanno tragicamente confermato la pericolosità e la capacità militare. Nel frattempo che cos’è avvenuto del piano d’azione europeo? C’è una lista di 22 punti, stilata da De Kerckhove, che riguarda altrettante azioni per rendere la prevenzione «più sottile e più efficace». Qualcosa si è fatto, ma non abbastanza. Al punto che il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker ieri ha reiterato l’annuncio di un piano per rafforzare il sistema europeo di contrasto, assicurando che presenterà le proposte entro febbraio.
Sul piano investigativo, il rafforzamento della collaborazione fra Europol e le agenzie di sicurezza dei 28 Stati, da affiancare a una "taratura" del trattato di Schengen, è la priorità (non a caso Juncker ne parla esplicitamente). I combattenti, se europei, possono muoversi liberamente entro i confini Schengen. Non solo: in teoria, potrebbero volare negli Usa o in altri Paesi terzi senza visto. Occorre dunque che i servizi di sicurezza europei si scambino le informazioni sui sospettati, vigilando sui loro spostamenti e superando le "ritrosie" normative o di protocollo: «Sono storicamente comprensibili – spiega un funzionario d’intelligence italiano –, ma in presenza di una minaccia globale andrebbero messe da parte». Il ruolo di coordinamento andrebbe a Europol e si potrebbe rafforzare il collegamento giudiziario con la struttura di Eurojust (e per facilitare un link nazionale, sarebbe opportuno che l’Italia, come altri Paesi, si dotasse di una procura nazionale anti terrorismo, anche solo estendendo i poteri della Procura antimafia).Un primo network è nato il 12 dicembre, durante la presidenza italiana del semestre europeo, fra investigatori incaricati di raccogliere e scambiarsi informazioni operative sui foreign fighters. L’accordo, proposto dal ministro Alfano e concretizzato dal gruppo di lavoro europeo guidato dal dirigente di Polizia Claudio Galzerano, è stato sottoscritto finora da 10 Stati Ue: Italia, che lo ha sollecitato, Finlandia, Slovenia, Repubblica ceca, Malta, Austria, Bulgaria, Paesi Bassi, Spagna e Portogallo. E presto potrebbe aggregarsi la Svizzera (extra Ue, ma aderente a Europol). Mancano però i big della Ue (Gran Bretagna, Germania, la stessa Francia), tanto che lo stesso vice-capo della Polizia Matteo Piantedosi ha invitato gli altri Stati europei ad aderire al network.
C’è un caso recente che illustra la difficoltà di cooperazione. Riguarda un cittadino austriaco identificato dall’intelligence tedesca come leader di un gruppo salafita: espulso dalla Germania è stato incarcerato in Austria, ma poi liberato. Si è spostato in Turchia, dove è stato arrestato per aver cercato di recarsi illegalmente in Siria. Vienna ne ha chiesto l’estradizione, ma senza esito. Su di lui è stato emesso un mandato d’arresto europeo, ma era già sparito di nuovo, finché col nome di Abu Ussama al Gharib è comparso a novembre in alcune foto su internet, attribuite all’Isis, accanto a corpi decapitati. La necessità di collaborazione con la Turchia, "hub" geografico per gli spostamenti di estremisti verso Siria e Iraq, è ben presente a Bruxelles, dove si ritiene pure vitale, ma ardua da realizzare, una cooperazione informativa e giudiziaria con Stati africani dove sono stati individuati campi d’addestramento degli integralisti (Libia, Somalia, Mali, Nigeria).
Alcuni governi europei (quello inglese e ora anche quello italiano) hanno proposto nuove norme interne per trattenere chi va a combattere all’estero in gruppi estremisti, anche bloccandone il passaporto, insieme a una vigilanza più stringente sul web, dove l’Isis e gli altri gruppi fanno propaganda e proselitismo. Ma in primis la comunità dell’intelligence caldeggia lo sblocco di una direttiva europea sulla conservazione dei dati dei passeggeri (conosciuta come Pnr, ossia passenger name record), che prevede la trasmissione, da parte delle compagnie aeree, di dati sui viaggiatori in entrata e in uscita dalla Ue (itinerario, stringa della carta usata per pagare, hotel prenotati) alle polizie degli Stati membri e conservate in un database per 5 anni. La direttiva, approvata dalla Commissione Barroso, è ferma da tempo presso il Parlamento di Strasburgo, dove si ritiene che possa comprimere eccessivamente il diritto alla privacy dei viaggiatori.
Nel frattempo la minaccia è aumentata di livello e di intensità. Un dossier delle Nazioni Unite riferisce di oltre 15mila combattenti di oltre 80 nazionalità diverse, confluiti a ingrossare le file delle milizie terroristiche in Siria e in Iraq. E alla fine del 2014, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione 2178 per vincolare gli Stati aderenti a bloccare l’ingresso e il passaggio di sospetti terroristi. Sul piano giuridico, dalle Torri gemelle (col primo Patriot Act statunitense), il quesito è lo stesso: come bilanciare le esigenze di sicurezza delle comunità con la salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini? È giusto interrogarsi, perché nessuno vuole altre Guantanamo, né arresti arbitrari o tanto meno renditions, ma l’impasse va superato. Dopo l’attacco alle Torri, la Ue approvò nel 2002 una definizione comune dei reati di terrorismo, creando il mandato d’arresto europeo. Dopo le bombe dell’11 marzo 2004 a Madrid (e poi del 7 luglio 2005 a Londra), istituì l’ufficio del coordinatore europeo. Ora, dopo il 7 gennaio di Parigi, è nuovamente tempo di darsi una scossa. Se è vero, come dicono le autorità tedesche, che i "pendolari" del jihad sono «bombe a orologeria» difficili da individuare, allora occorre che la Ue intera, e non i singoli Stati, dia presto la carica alla sveglia della prevenzione.